Nell’immaginario comune democrazia è sinonimo di “uguaglianza, giustizia, libertà”.
L’uso fraudolento del termine ne ha ovviamente snaturato il senso; e di questo senso snaturato si riempiono la bocca e le tasche politici e intellettuali, lasciando a pochi eretici l’ingrato compito di additare le nudità dell’Imperatore (v., ad es., “Sudditi”, di Massimo Fini).
Ma per la maggior parte degli attori in campo nella quotidiana bagarre politica, la democrazia non si discute. Piuttosto ognuno accusa l’avversario di oltraggiarla, svuotarla di senso, aggredirla. Ognuno pesca dal mazzo una figura retorica e la mette sul tavolo. La sinistra prende l’uguaglianza, il centro-centro sinistra la giustizia, la destra stringe la presa sulla libertà.
Non sempre nella storia questi concetti hanno avuto ed hanno la stessa fortuna e forza evocativa. Oggi l’uguaglianza tira poco. Anzi, di fronte allo “spavento” per i movimenti migratori, i Rom, gli stupri di gruppo e le truppe di indultati, appare quasi come una minaccia. La sinistra, infatti, è fuori dal Parlamento.
La giustizia è già più efficace…permette infatti all’elettorato “moderato” del centro-centro sinistra di rivendicarla sia per difendersi dai Rom che per attaccare Berlusconi, per dare un calcio in culo ai lavavetri e uno a Dell’Utri. Il problema è che sono in troppi oggi a voler indossare il mantello di giustiziere, e il centro-centro sinistra rischia continuamente di farselo strappare di mano dalle truppe dell’antipolitica, pronte ad usarlo con ancora maggior vigore.
La destra possiede in questo momento l’arma più efficace. La libertà è un’idea dalla forza retorica impareggiabile. Perché, detta così, non significa niente. E’ un concetto vuoto, così come “uguaglianza” e “giustizia”. La ricetta del consenso impone di evitare eccessi di zelo. La finzione ideologica prevede ideali fumosi, in modo da lasciare al singolo la possibilità di cucirseli addosso. La “libertà” è perfetta. Ogni cittadino potrà immaginarla come la “propria libertà”. E chi vorrebbe andare contro la propria libertà? L’uguaglianza è interesse di chi è dal lato sbagliato dell’equazione. Ma ora ci sono gli immigrati, che non votano…non conviene più l’uguaglianza. In soffitta. Oggi vestiamo di libertà. E siamo noi ad essere nudi, non l’Imperatore.
Ma torniamo alla democrazia. In particolare, a due libri di cui ho recentemente completato la lettura: “La democrazia in trenta lezioni” di Giovanni Sartori e “Critica della retorica democratica” di Luciano Canfora.
Il primo testo non ha grosse pretese, nonostante il titolo a carattere particolarmente didattico. E’ un’opera divulgativa, riadattamento di una serie di “pillole” somministrate dal celeberrimo Professore in un programma televisivo. Trenta capitoli, dunque, per illustrare i concetti chiave per comprendere la “democrazia”. E per difenderla, giacché Sartori si prodiga di dare spazio anche alle critiche degli oppositori del dogma democratico. Ma, com’è naturale che sia, lo fa attraverso la propria penna, e dunque non può risultargli particolarmente difficile liquidare le varie obiezioni con poco più di un’alzata di spalle.
Ma il testo è scorrevole, limpido, utile quindi ad alfabetizzare chi è a digiuno sull’argomento.
Sartori prova subito a spaventare l’ignaro lettore, presentando con disinvoltura i paradossi della democrazia. Bobbio illustrava benissimo la duplice natura della democrazia come “mezzo” e “fine” allo stesso tempo. Sartori evidenzia come la democrazia sia contemporaneamente “governo del popolo” e “governo sul popolo”. Il potere è infatti una relazione, per cui un individuo x ha potere su un individuo y. Il professor Chiodi esprime attraverso una formuletta (D/S) la necessità di questa relazione: uno spazio per il Detentore del potere (D), uno per chi il potere lo subisce (S) e uno per i mezzi di esercizio e controllo del potere (/). A meno di non pensare ingenuamente che la democrazia rappresenti il superamento di questo rapporto, e quindi una totale coincidenza di D ed S (autogoverno del popolo), la spiegazione ci viene suggerita dal Professor Sartori: trasmissione rappresentativa del potere.
Quindi mettiamo in cassaforte la prima conquista: la democrazia, in una società complessa, è - e non può non essere - “rappresentativa”. Il popolo non governa dunque nella sua interezza, ma sceglie dei rappresentanti, i quali andranno ad occupare lo spazio “D”. Maliziosamente si potrebbe insinuare che in questo modo il popolo sceglie soltanto chi dovrà comandarli; ma la dialettica democratica è più complessa. I rappresentanti del popolo hanno un tempo a disposizione per esercitare il loro mandato, e convincere gli elettori a rinnovare loro la fiducia. Questa dipendenza del potere dalla legittimazione popolare, è uno degli elementi di garanzia del cittadino. Non oso intervenire sulla formula del Professor Chiodi, ma forse potremmo aggiungere un ulteriore spazio, quello attraverso il quale i “sudditi” condizionano il “potere”. Attraverso il voto e le altre forme di partecipazione che garantisce il sistema democratico. O, più semplicemente, lo spazio “/” andrebbe inteso in senso più dialettico, come luogo di esercizio del potere sia del Detentore che dei Sudditi.
Si evince da quanto detto, il ruolo fondamentale, all’interno di un sistema democratico, dell’opinione pubblica. Va da sé che l’opinione pubblica ha un senso se “libera”.
E’ una questione pregnante, invisa ai sostenitori della democrazia quando gradita ai suoi detrattori.
Ma prioritario, sia nel lavoro di Sartori quanto in quello di Canfora, è individuare chi occupi realmente lo spazio del Detentore. Qual è in confine tra democrazia e oligarchia?
Sartori esplora rapidamente il pensiero di grandi autori come Mosca, Dahl, Schumpeter, fino a sintetizzare il proprio in poche parole: la democrazia è effettivo governo della maggioranza se si sottopone alla regola maggioritaria. Un fatto di ingegneria politica, dunque, la capacità di organizzare il sistema delle decisioni intorno alla regola ereditata da John Locke.
Non vi è dunque un’oligarchia, bensì, come sostiene Dahl, una poliarchia, dove diversi gruppi di potere si alternano nel decidere delle “questioni fondamentali”, e la loro alternanza è la garanzia della partecipazione di tutta la cittadinanza, attraverso i suoi rappresentanti, alle decisioni importanti.
Il quadro che ne emerge non è troppo diverso da quello di un mercato, dove ognuno può acquistare, attraverso il voto, la propria quota di partecipazione. Purtroppo, una singola quota non serve a niente. All’imbonitore farà comodo venderne il più possibile, ma i singoli acquirenti non si ritroveranno un bel niente tra le mani.
Purtroppo molti parolai, e quasi nessun matematico si occupa di democrazia.
La democrazia in cui ogni voto “conta” è una favola per bambini; il voto, per avere peso, deve essere organizzato. La mia partecipazione passa inevitabilmente attraverso l’adesione a gruppi di pressione, così come richiede la dialettica interna ad una poliarchia.
Il testo di Canfora si presenta, sin dal titolo, con un approccio radicalmente opposto:”Critica della retorica democratica”. Si tratta di un testo agile, scorrevole, ma incisivo nell’aggredire i luoghi comuni su cui si fonda la cantilena democratica.
L’oggetto d’analisi è più ampio, rispetto al libro di Sartori; l’indagine si spinge fino alle ragioni storiche e attuali della crisi della sinistra, lasciando trasparire tuttavia ottimismo, fiducia in quel cambiamento che non potrà non avvenire.
Non si tratta dell’altro ritornello, ovvero quello della rivoluzione proletaria. Canfora sfugge con intelligenza e invidiabile leggerezza a luoghi comuni e pregiudizi ideologici.
Sin dalle prime pagine, l’autore segnala la doppiezza delle democrazie occidentali:
innanzitutto, l’ambiguità ideologica. Se le democrazie sono tali al loro interno, sostengono fascismo e dittatura un po’ ovunque per il mondo, rivelando una natura tutt’altro che refrattaria al ricorso alla violenza e all’oppressione. Come saggiamente osservava Thomas Mann, la reale identità di un sistema politico andrebbe misurata su scala planetaria, non nazionale.
In secondo luogo, Canfora svela l’ipocrisia dell’ideologia del consenso. L’elettore infatti non sceglie in assoluto, ma tra una serie di opzioni, soprattutto se ha interesse ad esprimere un “voto utile”. E il voto utile, in tutte le democrazie occidentali, converge verso il centro.
Dunque, viviamo in un “sistema misto”, formato da democrazia (poca) e oligarchia (molta). Questo sistema, infatti, combina il principio elettorale (istanza democratica) con la realtà, opportunamente garantita, della prevalenza dei ceti medio-alti.
E’ sufficiente guardare un po’ in casa nostra. Basti pensare alla censura; i personaggi più temuti non sono gli estremisti, ma quelli in grado di “aggredire” culturalmente il centro. Coloro che possono influenzare il vero ago della bilancia.
Il risultato è l’emarginazione dei ceti meno competitivi e il drastico ridimensionamento della loro rappresentanza.
La democrazia, dunque, non può essere analizzata “in abstracto”, ma nelle sue declinazioni storiche, nella sua concretezza. Le democrazie occidentali sono un sistema di governo che prevede l’alternarsi al potere di rappresentanti del ceto medio. Cambiano dunque i gestori del potere, ma non gli interessi.
Si tratta di poliarchia, come vuole Sartori (o meglio Dahl…), se guardiamo ai “gruppi di potere”. Parliamo invece di oligarchia, come più correttamente – a mio avviso – sostiene Canfora, se guardiamo agli interessi.
La democrazia, a differenza di tutte le forme di governo che l’hanno preceduta, prevede – almeno sul piano teorico - un’assoluta coincidenza dei fini cui ambisce, e i mezzi attraverso cui intende perseguirli. Un cerchio perfetto, un assoluto, in cui il cambiamento è ridotto a mero assestamento. La democrazia, apparentemente, non può essere superata.
E probabilmente, da un punto di vista politico, è davvero così. Canfora affida la speranza nel cambiamento alla cultura, alle intelligenze.
Ma la democrazia è un Leviatano che fagocita qualunque cosa, anche il dissenso, anche la produzione culturale dei suoi “nemici”. Il capitalista pubblica i libri dei suoi detrattori, ed entrambi si arricchiscono. L’interesse, come dicevamo, è lo stesso…nulla cambia all’interno della struttura del Leviatano. Al massimo, come già scritto, è possibile parlare di “assestamento”.
Ma la cultura cui fa riferimento Canfora è un’altra cosa; lo scrittore rivolge la speranza a quelle opere che sono in grado di realizzare rivoluzioni copernicane, di cambiare il modo in cui l’uomo guarda al mondo. Opere come “Il Capitale” di Marx o “L’evoluzione della specie” di Darwin, che hanno segnato un punto di non ritorno nella storia culturale dell’umanità.
Pensieri di forza e capacità rivoluzionaria immensa, in grado di rovesciare lo stomaco dell’ingordo Leviatano.
Pensieri in grado di intervenire nello spazio “/”, e offrire una nuova difesa contro il più potente degli strumenti di dominio della demo-oligarchia: la finzione ideologica.
sabato 13 settembre 2008
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