Cara Silvana,
con questa lettera spero di riuscire a chiarire una volta per tutte, almeno a te, la reale natura del rapporto di complicità che ha legato, per una breve fase della mia vita, il mio destino a quello del Casuario del Bioparco di Roma.
Si è molto discusso su questo argomento, e in molti, compreso il consulente che avrebbe dovuto assumere la mia difesa, hanno preferito parlare di una mia “schizofrenia”, scegliendo la soluzione più semplice, piuttosto che doversi confrontare con una realtà scomoda per loro. Non nego di aver in parte cavalcato questa situazione, trovando degli innegabili vantaggi nel fatto di passare per folle, ma con te non voglio avere alcun segreto. Ti dirò tutto:
Come sai, nel periodo di cui ti parlo, ero piuttosto infelice. La prolungata disoccupazione mi aveva gettato in uno stato di depressione, in cui non riuscivo più ad individuare una mia “identità”, quella rappresentazione di te stesso che soltanto il lavoro può darti, e che è strumento inalienabile per ottenere quella dignità sociale cui tutti, in modo diverso, aneliamo. Decisi da andare a trovare mio fratello e mia cognata, a Roma, e di passare un po’ di tempo con loro. Ero certo che trovarmi tra persone amiche, che avevano vissuto momenti difficili come me, mi avrebbe aiutato ad essere più sereno. Decidemmo di passare il sabato al Bioparco, che da tempo desideravo visitare.
Non ne rimasi deluso; le tigri, un po’ strette nello spazio a loro attribuito, erano maestose e affascinanti come sempre; le scimmie esilaranti, i licaoni inquietanti, gli orsi buffi e spaventosi allo stesso tempo. Una giornata meravigliosa. In un paio di occasioni, alcuni animali mi si erano avvicinati, nei limiti del possibile, e mia cognata, stupita e divertita dalla situazione, mi paragonò addirittura a San Francesco. Scherzando in questo modo, passammo accanto alla gabbia del Casuario, un uccello di notevoli dimensioni che, a causa delle sue proporzioni, come lo struzzo, non può volare. Sembrava un enorme gallinaceo variopinto. Ad un tratto, un passerotto venne a posarsi su un ramo tra me e la gabbia del Casuario. Mia cognata rise della cosa, e mi paragonò nuovamente al Santo; scherzosamente, allungai il braccio verso l’uccellino, e questi ci saltò sopra, come fosse il suo trespolo. Mio fratello cercò la macchina fotografica per immortalare quel momento curioso, ma il volatile, probabilmente spazientito dalla lentezza dell’operazione, volò via e, incautamente, attraversò la gabbia del Casuario; fu un attimo, e quell’enorme pennuto afferrò al volo il suo più piccolo parente, deglutendolo subito dopo come una nocciolina. Rimanemmo tutti di sasso. Mio fratello e la moglie presero spunto dall’episodio per una discussione sul vero volto della tanto declamata “natura”, ma io notai qualcosa che a loro era sfuggita. Subito dopo aver ingerito il piccolo uccello, il Casuario si voltò verso di me, dapprima guardandomi in tralice, poi fissandomi. Non impiegai molto a capire cosa stava cercando di comunicarmi; mi stava ringraziando, certo, avendo pensato che il mio fosse un omaggio volontario, ma c’era anche qualcosa di più. Mi stava chiedendo una collaborazione, una complicità! Aveva capito che insieme, grazie al mio potere e alla sua rapidità, avremmo potuto essere un’ottima squadra.
La notte non riuscii a prendere sonno. Non avevo nulla da guadagnare da un accordo simile, e non mi sembrava neanche molto etico. Tuttavia, avrei finalmente ottenuto ciò che cercavo: un ruolo! Mi resi conto che dovevo ringraziare il destino se, quel giorno, la mia strada aveva incrociato quella del Casuario, e alla fine presi la mia decisione.
Il giorno successivo tornai al Bioparco, e raggiunsi la gabbia del Casuario. Mi accolse senza particolari entusiasmi, come se fosse stato certo che avrei accettato la sua offerta; non posso negare che fui affascinato dalla personalità di quel meraviglioso uccello. Dopo qualche minuto che mi trovavo lì, un passerotto venne a posarsi vicino a me. Non salì sul mio dito, forse leggendo nel mio sguardo la mia segreta intenzione, e fui costretto a spingerlo deliberatamente verso la gabbia. Fu un attimo, e il Casuario inghiottì il malcapitato volatile. Tornai a casa soddisfatto; avevo fatto bene il mio lavoro, e mi ero guadagnato la stima del Casuario.
La tresca proseguì per diverso tempo, finché le pretese del mio compagno cominciarono a farsi più pressanti. Pretendeva due pasti al giorno, e gli uccelli non gli bastavano più. Topi, piccoli di gatto, persino rettili, il Casuario divorava tutto con incredibile ingordigia. Ma un giorno mi resi conto che il nostro sodalizio doveva interrompersi. Come al solito ero appoggiato alla ringhiera vicino la sua gabbia, in attesa di una preda da sacrificare, quando una coppia di giovani sposi si accostò a noi. La donna spingeva un carrozzino, con un bambino che poteva avere al massimo un paio di anni. - «guarda!» - disse la donna, rivolgendosi al pargolo - «uno struzzo!». Mi voltai divertito verso il Casuario, per condividere con lui la comicità della situazione, ma quando incrociai il suo sguardo rimasi pietrificato. Con gli occhi iniettati di sangue, cercava di impormi la sua personalità, come per dominarmi prima di una richiesta che, doveva averlo immaginato, avrebbe prodotto in me delle forti resistenze. Cos’era che voleva davvero? Nutrirsi delle tenere carni di un bambino umano, o soltanto ottenere da me una prova di fedeltà superiore, come Dio che chiede ad Abramo di sacrificare Isacco? Avrebbe fermato la mia mano all’ultimo istante? Non lo saprò mai, perché trovai la forza di resistergli, di rifiutarmi. Il Casuario rimase allibito, io stesso non potevo credere di essere davvero riuscito a svincolarmi dalla morsa di quella personalità dispotica e totalizzante, e in un attimo mi resi conto di fin dove mi ero spinto per assecondare quell’uccello scellerato. Corsi via coprendomi il volto con le mani per la vergogna; umiliato, si, ma deciso a fare giustizia, pronto a denunciare il Casuario, assumendomi tutte le responsabilità del caso.
Tuttavia, il Casuario deve essere riuscito ad abbindolare gli inquirenti con qualche menzogna, poiché, dal momento della mia confessione, non ho trovato un momento di pace, e sembra quasi che l’unico responsabile di tutto quanto sia avvenuto sia soltanto io. Capisci? Come se la responsabilità fosse solo mia! Comunque non disperare, sono certo che riuscirò, prima o poi, a far venire a galla la verità. Tuo affezionato
Dario
lunedì 27 agosto 2007
mercoledì 15 agosto 2007
Il mio amico Marco
La storia del mio amico Marco è molto triste.
Marco era un bravo calciatore, forse un po’ troppo esile per i suoi 16 anni, ma con una buona tecnica di palleggio e un’ottima visione di gioco. Per l’incontro contro il Borgovasto, il Mister lo aveva schierato fin dall’inizio, a ridosso delle punte, sperando in un suo guizzo che potesse mettere improvvisamente in difficoltà la difesa avversaria; purtroppo, però, Marco non era in una delle sue giornate migliori, e, complice anche il caldo afoso, sembrava piuttosto fermo sulle gambe. Alla mezz’ora, tuttavia, riuscì a controllare con uno stop da manuale un cross proveniente dalla sinistra; mise la palla a terra e dribblò subito un avversario, portandosi al vertice dell’aria piccola. Stava per tirare, ma un difensore lo strattonò per la maglia, impedendogli di battere a rete. Marco si voltò verso l’arbitro, e lo vide correre verso di lui indicando il dischetto: calcio di rigore! I compagni lo festeggiarono, ma Marco cercò di restare concentrato; toccava a lui battere. Era l’occasione per rifarsi della prestazione scadente, e per portare in vantaggio la squadra. Il mio amico sistemò lentamente la palla sul dischetto, poi fece qualche passo indietro per prendere la rincorsa. Evitò di guardare il portiere negli occhi; sapeva che avrebbe cercato di innervosirlo. Si concentrò sulla porta, partì lentamente, al trotto, ancora indeciso su dove tirare… poi vide un movimento del portiere, che si piegava verso la propria destra… allora colpì di collo pieno mirando nella direzione opposta e … goal! Marco urlò come un forsennato: “Goal! Goal! Goaalll!!”. Sollevò le braccia al cielo in segno di gioia e cominciò a correre verso gli spalti. Ma l’arbitro lo gelò:”annullato!”. Marco era incredulo; accennò ad una protesta, e cercò solidarietà nei compagni di squadra, ma tutti sembravano volerlo incenerire con lo sguardo. Marco non riusciva a capire cosa fosse successo; in un silenzio irreale, si avvicinò all’arbitro e biascicò:”ma…perché?”. Il direttore di gara lo squadrò da capo a piedi, poi gli rispose:”perché mi stai sulle palle!”. Marco non ebbe neanche il tempo di stupirsi, che all’improvviso tutto lo stadio scoppiò in una fragorosa risata; come facevano ad aver sentito? Entrambe le tifoserie cominciarono ad ingiuriarlo, e come dal nulla apparvero striscioni con su scritto “Marco sei un coglione”. Il mio amico fu preso dall’agitazione; era troppo reale per trattarsi di un sogno, troppo ben ingegnato per essere uno scherzo… che diavolo stava succedendo? I compagni cominciarono a non passargli la palla di proposito, e gli avversari lo irridevano continuamente senza che l’arbitro accennasse ad intervenire. Preso dal panico cominciò a correre a vuoto per tutta la lunghezza del campo, fino ad inciampare nell’erba, molto lontano dal pallone, ma l’arbitro fermò ugualmente il gioco ed estrasse il cartellino giallo. L’ilarità sugli spalti era ormai incontenibile. Oggetti di tutti i tipi cominciarono a volare sul campo, mirati a colpire il mio povero amico, immobile, accasciato sulle ginocchia, in mezzo al prato.
Marco non riusciva più a trattenere le lacrime. Guardò verso la panchina implorando con lo sguardo la sostituzione, ma l’allenatore lo degnò appena di uno sguardo e tornò subito a concentrarsi sulla partita. Marco, preso dalla disperazione, chiuse gli occhi, con una tale energia da sentire pulsare le tempie; desiderò di sparire, di essere risucchiato dal campo di gioco… e sparì. Improvvisamente, come un battito di ciglia, inghiottito dalla sua stessa vergogna. Ma la sua squadra, giocando con un uomo in meno per il resto dell’incontro, fu sconfitta per due reti a zero.
Marco era un bravo calciatore, forse un po’ troppo esile per i suoi 16 anni, ma con una buona tecnica di palleggio e un’ottima visione di gioco. Per l’incontro contro il Borgovasto, il Mister lo aveva schierato fin dall’inizio, a ridosso delle punte, sperando in un suo guizzo che potesse mettere improvvisamente in difficoltà la difesa avversaria; purtroppo, però, Marco non era in una delle sue giornate migliori, e, complice anche il caldo afoso, sembrava piuttosto fermo sulle gambe. Alla mezz’ora, tuttavia, riuscì a controllare con uno stop da manuale un cross proveniente dalla sinistra; mise la palla a terra e dribblò subito un avversario, portandosi al vertice dell’aria piccola. Stava per tirare, ma un difensore lo strattonò per la maglia, impedendogli di battere a rete. Marco si voltò verso l’arbitro, e lo vide correre verso di lui indicando il dischetto: calcio di rigore! I compagni lo festeggiarono, ma Marco cercò di restare concentrato; toccava a lui battere. Era l’occasione per rifarsi della prestazione scadente, e per portare in vantaggio la squadra. Il mio amico sistemò lentamente la palla sul dischetto, poi fece qualche passo indietro per prendere la rincorsa. Evitò di guardare il portiere negli occhi; sapeva che avrebbe cercato di innervosirlo. Si concentrò sulla porta, partì lentamente, al trotto, ancora indeciso su dove tirare… poi vide un movimento del portiere, che si piegava verso la propria destra… allora colpì di collo pieno mirando nella direzione opposta e … goal! Marco urlò come un forsennato: “Goal! Goal! Goaalll!!”. Sollevò le braccia al cielo in segno di gioia e cominciò a correre verso gli spalti. Ma l’arbitro lo gelò:”annullato!”. Marco era incredulo; accennò ad una protesta, e cercò solidarietà nei compagni di squadra, ma tutti sembravano volerlo incenerire con lo sguardo. Marco non riusciva a capire cosa fosse successo; in un silenzio irreale, si avvicinò all’arbitro e biascicò:”ma…perché?”. Il direttore di gara lo squadrò da capo a piedi, poi gli rispose:”perché mi stai sulle palle!”. Marco non ebbe neanche il tempo di stupirsi, che all’improvviso tutto lo stadio scoppiò in una fragorosa risata; come facevano ad aver sentito? Entrambe le tifoserie cominciarono ad ingiuriarlo, e come dal nulla apparvero striscioni con su scritto “Marco sei un coglione”. Il mio amico fu preso dall’agitazione; era troppo reale per trattarsi di un sogno, troppo ben ingegnato per essere uno scherzo… che diavolo stava succedendo? I compagni cominciarono a non passargli la palla di proposito, e gli avversari lo irridevano continuamente senza che l’arbitro accennasse ad intervenire. Preso dal panico cominciò a correre a vuoto per tutta la lunghezza del campo, fino ad inciampare nell’erba, molto lontano dal pallone, ma l’arbitro fermò ugualmente il gioco ed estrasse il cartellino giallo. L’ilarità sugli spalti era ormai incontenibile. Oggetti di tutti i tipi cominciarono a volare sul campo, mirati a colpire il mio povero amico, immobile, accasciato sulle ginocchia, in mezzo al prato.
Marco non riusciva più a trattenere le lacrime. Guardò verso la panchina implorando con lo sguardo la sostituzione, ma l’allenatore lo degnò appena di uno sguardo e tornò subito a concentrarsi sulla partita. Marco, preso dalla disperazione, chiuse gli occhi, con una tale energia da sentire pulsare le tempie; desiderò di sparire, di essere risucchiato dal campo di gioco… e sparì. Improvvisamente, come un battito di ciglia, inghiottito dalla sua stessa vergogna. Ma la sua squadra, giocando con un uomo in meno per il resto dell’incontro, fu sconfitta per due reti a zero.
martedì 14 agosto 2007
Educazione e devianza: contraddizioni e prospettive dell’intervento rieducativo.
1. Il problema etico nelle scienze dell’educazione
Qualunque concezione pedagogica sottende alle proprie metodologie e pratiche educative una problematica etica. Perché l’educazione non si risolva in una serie di applicazioni prive di un progetto culturale riconoscibile, dunque nella logica di un cieco asservimento al sistema normativo di riferimento, cioè quello dominante, è necessario che riflessione pedagogica e filosofica procedano in maniera parallela. Ma la problematica etica nasce con l’uomo, e come l’uomo si rivela un processo in continuo divenire, impossibile da cristallizzare ma anche da accantonare, poiché assolutamente imprescindibile. Ogni filosofia dell’educazione ha una matrice di natura sociale, nel senso che la pratica educativa nasce comunque da un’esigenza di integrazione, per cui il soggetto passivo/attivo del processo pedagogico deve essere preparato ad assumere il suo ruolo nel contesto sociale; e deve essere un ruolo “socialmente accettabile”. Ad una concezione di un uomo totalmente “per lo stato”, la cui formazione è dunque orientata esclusivamente ad un suo proficuo inserimento nel tessuto sociale (proficuo per la società in abstracto, non per l’individuo), si contrappone una concezione umanista, dove l’uomo, con le sue risorse e i suoi bisogni, è posto al centro del disegno educativo. Ma anche in questo caso, resta imprescindibile la funzione sociale della pedagogia; nessuna struttura sociale, attraverso tutte le sue risorse educative (famiglia, scuola, chiesa, mass media, ecc.) può educare un soggetto al conseguimento della propria felicità, libertà o quel che sia, prescindendo dal resto della collettività. Educare un soggetto alla “libertà”, dove la libertà è intesa perseguibile finché non intacca quella di qualcun altro, significa educare all’integrazione ed inclusione sociale. Ma quello che interessa, ai fini della nostra riflessione, è stabilire questo principio: la concezione pedagogica odierna prevede la formazione di soggetti in grado di vivere attivamente la collettività, ovvero di buoni cittadini, così come nella concezione democratica del termine. Dunque, uomini integrati positivamente nella società, ma in una società che tenga conto del valore imprescindibile dell’individuo, dei suoi diritti fondamentali e universali. La cultura pedagogica attuale si pone dunque il problema della felicità degli uomini, ma della loro felicità “con” gli altri uomini. Questa “corrispondenza d’amorosi sensi” è possibile soltanto, secondo quest’ottica, in una società democratica.
Apparentemente abbiamo a che fare con una concezione perfetta, limpida, priva di qualunque ambiguità; l’uomo al centro del sistema di valori, motore pensante e fattivo della collettività; ma anche i più ferventi sostenitori del sistema democratico non possono negare che si tratta di un sillogismo che contraddice continuamente le sue premesse. Che tutti gli uomini siano uguali è ovviamente contraddetto da qualunque raffronto con la realtà empirica; si tratta di un principio di riferimento, al limite di un’intenzione, “gli uomini devono essere tutti uguali”, ma ovviamente non è una realtà di fatto. Le possibilità sono due: 1) il sistema democratico non è ancora pienamente maturo, ma riuscirà prima o poi a garantire una reale uguaglianza tra i suoi cittadini; 2) il sistema democratico poggerà sempre su questa contraddizione, e potrà sopravvivere soltanto in virtù del permanere di questa discrepanza tra i suoi cittadini.
In entrambi i casi, esiste un problema etico di fondo di grande spessore. Di fatto, esistono cittadini, e dunque uomini, per quanto detto sopra, di serie A e di serie B, detto nel modo più banale possibile. Come si pone un educatore di fronte ad un emarginato, un soggetto svantaggiato, un uomo ai margini? Educatori che hanno fatto del loro lavoro quasi una missione, convinti dell’importanza di riscattare anche il più emarginato degli uomini, tradiscono una segreta tendenza ad appiattirsi sulle posizioni del sistema dominante e, dunque, a sacrificare anche i ricettori dell’azione pedagogica, nel tentativo di integrarli in un sistema che, di fatti, li mette ai margini. Perché un emarginato dovrebbe introiettare il sistema di valori della società che, di fatto, fa di lui un escluso? In questo caso integrarsi si tradurrebbe in un semplice asservimento.
Ma è davvero dalla parte dell’emarginato, l’educatore che invece sostiene e rinforza la volontà di non assoggettarsi del suo assistito, lasciandolo così permanere nella sua marginalità, non asservito ma schiacciato?
La verità è, probabilmente, che non è pensabile che il padrone e il servo abbiano lo stesso sistema di valori, la stessa etica; quando è così, è il primo che ha imposto le proprie regole al secondo. Di conseguenza, non ha senso un sistema pedagogico che si rivolga, come scrive Freire[1], agli “oppressori e agli oppressi” con le stesse parole, le stesse logiche. Ma esiste, oggi, una “pedagogia degli oppressi”? Evidentemente no, e la tendenza dominante è quella di riportare “le pecorelle smarrite” all’ovile, magari riconoscendo l’ingiustizia di fondo, ma stigmatizzando comunque i gesti “non allineati”, attraverso quel sistema di valori che appartiene agli oppressori e anche agli educatori. Ma può un educatore avere il medesimo sistema di valori degli oppressori? E viceversa, potrebbe invece assumere completamente quello degli oppressi?
La mancanza di un sistema di valori di riferimento alternativo a quello dominante, per gli emarginati, porta a due conseguenze probabilmente inevitabili: innanzitutto, e ovviamente assieme ad una concausa di motivazioni, la nascita di sub-culture devianti, prive di un reale sistema di valori alternativo. Le sub-culture assumono i valori di riferimento delle classi dominanti ma, non potendo accedervi con gli stessi mezzi, ricorrono all’illegalità, ristrutturando il proprio sistema etico di riferimento in questa nuova dimensione, creando una vera e propria “ideologia criminale”. In secondo luogo, e il problema riguarda gli educatori, la concretizzazione di un’impasse senza sbocchi, dove l’unica via d’uscita possibile sembra l’asservimento, prospettiva che non può tranquillizzare lo spirito di un educatore coscienzioso.
2. L’ambiguità dell’intervento nelle carceri.
La questione evidenzia tutta la sua problematicità se l’attenzione viene spostata dal concetto di educazione a quello di ri-educazione. In questo senso tutta la contraddittorietà della cultura pedagogica odierna emerge in maniera incontrovertibile. Poniamo il caso della ri-educazione dei detenuti, cioè di soggetti devianti che devono essere inseriti nuovamente nel contesto sociale da cui sono stati provvisoriamente isolati; la riforma penitenziaria 354/1975 ha sancito la funzione rieducativa e risocializzante della pena, attraverso una serie di importanti innovazioni tra cui l’inserimento della figura professionale dell’educatore, prima previsto soltanto nell’ambito della giustizia minorile. Ma la concezione rieducativa della pena ha ovviamente radici più antiche e profonde; Giovanni Howard[2] in Inghilterra e Cesare Beccarla[3] in Italia, nella seconda metà del ‘700 hanno gettato le basi della odierna concezione della pena. Non è questa la sede per una ricostruzione della storia della cultura penalista e delle istituzioni totali, basti segnalare che l’orientamento attuale è quello ri-educativo, seppure tra moltissime contraddizioni, dovute sia allo stato effettivo del sistema custodiale (sovraffollamento, inadeguatezza delle strutture), che di fatto non consente l’attuazione delle intenzioni educative, sia ad alcune incongruenze tra i vari interventi del Legislatore susseguitesi negli anni. Ad es., la Gozzini e la Simeone-Saraceni che, introducendo la possibilità di accedere alle misure alternative alla detenzione direttamente dalla libertà, non consentono l’osservazione scientifica della personalità, punto nevralgico della funzione rieducativa secondo i dettami della riforma del 1975. Si tratta di interventi per molti versi positivi, poiché tesi ad evitare il contatto con il difficile ambiente carcerario ad autori di reati minori; inoltre rappresentano anche un modo per reagire al dramma (perché di dramma si tratta) del sovraffollamento carcerario e, nondimeno, a problemi di natura economica. Si aprono tuttavia ulteriori contraddizioni, tenendo conto della tendenza degli ultimi anni a politiche più repressive e al ritorno dell’opinione pubblica verso risposte orientate ad una concezione retributiva della pena. Il discorso è ampio e meriterebbe ben altro approfondimento, ma come già detto esula dall’obiettivo di questo lavoro.
Ribadiamo quanto già asserito: l’attuale orientamento di pensiero rispetto al trattamento delle devianze è di tipo ri-educativo. Qual è la premessa etica di tale concezione? Il soggetto deviante va risocializzato, cioè reinserito in maniera positiva nella società. Questa è la premessa da cui partire; qual è la motivazione? Chi è che deve beneficiare di questo intervento, la società o il soggetto deviante? Coerentemente con la concezione pedagogica dominante, la distinzione ha poco senso. Tanto la struttura sociale quanto l’individuo singolo trarrebbero un indubbio beneficio da una proficua integrazione. L’attenzione al soggetto è evidente, altrimenti non ci sarebbe motivo di non ricorrere alla pena di morte. Questa pratica ripugna alla coscienza collettiva in quanto tiene conto soltanto di un’esigenza di sicurezza sociale (e anche su questo ci sarebbe molto da discutere), prescindendo dal sacrosanto diritto dell’individuo alla vita.
3. Le ragioni sociali della devianza
La teoria del conflitto culturale di Sellin[4] si fonda sull’idea di norme di condotta, ovvero di regole che orientano il comportamento. Queste norme di condotta hanno una matrice culturale, e sono stabilite in funzione delle esigenza dei gruppi dominanti. Ovvero, coloro che detengono il potere sociale e politico, hanno in queste norme un efficace strumento per imporre la propria idea di devianza, di crimine. Queste norme a loro volta sono l’espressione di un particolare gruppo sociale. In pratica, se una cultura approva un atto che configge con l’orientamento culturale dominante, allora quell’atto diventa criminale.
Ancora più significativa ai fini di questo lavoro è la teoria dell’anomia così come espressa a Merton[5]. Lo studioso segnalò che nelle società alcune mete sono particolarmente messe in risalto (successo economico), ma che non tutti i mezzi per conseguire queste mete sono da considerarsi legittimi. Tuttavia non tutti i membri del contesto sociale hanno le stesse possibilità di conseguire i medesimi obiettivi con mezzi legittimi, e, conseguentemente, tenteranno di raggiungere il risultato anche con mezzi illegittimi. Una società è anomica quando le cause della disuguaglianza sono da imputare alla struttura sociale stessa. In pratica l’anomia è una incongruenza della società che propone delle mete senza però offrire a tutti i mezzi per conseguirle. Ovviamente non tutte le mete sono egualmente appetibili da tutti gli individui o le classi sociali. Merton vuole riferirsi fondamentalmente ad un messaggio culturale, il quale legittima la competizione per l’ascesa e la mobilità sociale per coloro i quali sono interessati a raggiungerla. E’ l’enfasi con cui una società insiste su alcune mete che segna il grado di anomia di una società stessa (Merton segnala in particolare il caso dell’America e del rilievo che ha in essa in conseguimento del successo economico). In sostanza, la teoria dell’anomia di Merton spiega come la struttura sociale stessa contribuisca a produrre devianza.
Occupandosi della delinquenza giovanile, Cohen[6] presenta un ragionamento interessante: i bambini delle classi inferiori hanno i loro primi problemi di integrazione sin dalle scuole elementari, dove si trovano a misurarsi con bambini delle classi medie e dove vengono valutati da insegnanti con parametri di valutazione appartenenti alla classe media, estranei alla realtà del bambino. La condivisione, la definizione di obiettivi a lungo termine, il rispetto della proprietà; sono valori che ovviamente appartengono a chi possiede, a chi vive in un ambiente familiare dove si è abituati ad investire sul futuro, dove esistono delle aspettative per l’avvenire, dove esiste il culto del lavoro come mezzo valido per ottenere ciò che si desidera. Questo crea una notevole discrepanza tra questi ragazzi e quelli delle classi medie; anche gli insegnanti vengono percepiti, diciamo, dalla stessa parte degli alunni più privilegiati. Da questi presupposti teorici, è facile aprire un collegamento non azzardato con la cosiddetta teoria dell’etichettamento. Tannenbaum[7] ha scritto che quando un bambino viene scoperto a commettere un’azione “deviante”, in qualche modo gli viene affissa un’”etichetta”. Ciò qualifica il bambino come deviante, ed influisce sulla rappresentazione che il soggetto ha di sé; ma quest’etichetta è più che visibile, tanto che gli altri reagiranno non più al bambino, ma alla sua etichetta; è l’etichattamento, dunque, la base della devianza. In pratica, una volta piazzata l’etichetta, insorgono due meccanismi diversi:
1. la tendenza dell’osservatore a vedere l’etichetta anziché il soggetto che ne è portatore
2. l’interiorizzazione dell’etichetta da parte del suo portatore, fino all’autodefinizione di “deviante”
Due meccanismi diversi, dicevamo, ma convergenti nel provocare un’espansione della devianza, fino alla costruzione di una “carriera deviante”. E’ d’altra parte evidente che i soggetti delle cosiddette classi inferiori sono più facilmente suscettibili di essere etichettati. In generale le classi più agiate tendono a definire devianti quei comportamenti delinquenziali che afferiscono a situazioni di povertà ed emarginazione, riservando un trattamento ben diverso agli illeciti dei cosiddetti “colletti bianchi”. Ragion per cui chi ruba dei candelabri, come il Jean Valjean dei Miserabili, è un ladro; chi commette un falso in bilancio, è tutt’al più un disonesto.
Particolarmente interessanti sono anche le teorie sulle sub-culture devianti. Al di là della differenza nell’approccio, fondamentalmente convergono sull’assunto per cui i membri della società condividono un sistema di valori, di norme, di regole, che pongono alcuni di essi al di sopra degli altri. In qualche modo ciò rappresenta la legittimazione, anche a livello culturale, dell’ineguaglianza tra gli uomini.
Le disuguaglianze sociali sono funzionali alla società di mercato, dunque la devianza è un fenomeno congiunturale alla democrazia liberale. Potremmo spingerci oltre, discutendo sulla possibilità che il crimine stesso sia funzionale al sistema economico; ma è un argomento complesso, e comunque poco utile ai fini di questo lavoro. Che si tratti di un elemento costitutivo del sistema, o di una conseguenza inevitabile della sua stessa strutturazione, la sostanza non cambia. La società di mercato provoca devianza. E non spaventi questa conclusione; la democrazia rappresentativa liberale, specie in questi anni particolarmente allarmanti dal punto di vista delle relazioni internazionali, è diventata nell’immaginario collettivo un baluardo, l’unica forma di governo in grado di garantire e difendere libertà e diritti. Non si sta sostenendo la superiorità di teocrazie o dittature varie, ci mancherebbe altro, né postulando eversivamente un sistema migliore di quello democratico. L’assioma per cui “la società di mercato provoca devianza” è quanto ci interessa per proseguire nella riflessione.
Dopo quanto stabilito, rielaborando l’impianto dell’odierna concezione pedagogica, la stonatura è immediatamente individuabile. Praticamente, ri-educare e ri-socializzare significa “asservire”. Il soggetto deviante deve interiorizzare il sistema di valori dominante, cioè la sovrastruttura ideologica del sistema che l’ ha emarginato. Ci si aspetta dal deviante da rieducare, l’adesione ad un sistema di valori e regole funzionali all’oppressione della sua stessa classe. La finalità rieducativa svela tutta la sua ipocrisia, la sua intollerabile mistificazione. Malcom X[8], nella sua autobiografia, evidenzia il suo irriducibile disprezzo per una società che prima schiaccia gli individui con il suo peso, e poi li punisce se non riescono a sostenerlo. La nuova cultura penitenziaria introduce un elemento in più: non basta punire i soggetti messi ai margine dal sistema, devono anche introiettare il sistema di valori dominante, devono considerare giusta la loro punizione. Difficile immaginare qualcosa di più de-socializzante e de-strutturante. I devianti dovrebbero trasformarsi in tanti Zio Tom, sudditi per vocazione, passivi sostenitori delle istanze del padrone. Ma la trappola del sistema è sempre la stessa; sicuramente la qualità (parola forse inappropriata) della vita carceraria è migliorata con l’avvento dell’ideologia rieducativa. Qualcuno ha sostenuto che il carcere debba servire da “contenitore sociale”, la cui finalità è non soltanto arginare gli effetti devastanti della devianza diffusa, ma anche inibire le istanze di una classe sociale considerata “rivoluzionaria”, dunque pericolosa per il mantenimento dello status quo. Ai tempi della rivoluzione industriale, nelle carceri finivano soprattutto appartenenti alla classe lavoratrice. Secondo Focault[9] ciò era strumentale anche da un punto di vista economico, sfruttando il lavoro dei detenuti. Oggi nelle carceri troviamo sempre più spesso immigrati e tossicodipendenti. Ad ogni modo, se l’obiettivo è asservire anche culturalmente le classi più disagiate, la nuova finalità rieducativa si presta magnificamente allo scopo. E gli educatori sono i missionari di questa nuova frontiera dell’asservimento culturale, dell’accettazione della propria marginalità; e, contemporaneamente, sostengono i reclusi nella rivendicazione dei loro diritti di “detenuti”. Perché come detenuti hanno dei diritti, perché “sono” dei detenuti, non cittadini, detenuti e basta; e come tali, portatori di diritti.
Quale ruolo scomodo quello dell’educatore penitenziario. E’ la punta dell’iceberg, la problematicità della sua condizione è l’ipostatizzazione di una crisi dell’intera cultura pedagogica, percepita o meno che sia. Un educatore, se non vuole essere la faccia pulita di un sistema oppressivo ed ipocrita, deve liberarsi da questa insulsa mentalità risocializzante, dal piattume (e pattume) concettuale che, attraverso il sistema della “premialità”, elargisce premi a chi da prova di maggior asservimento e docilità. E tuttavia permane il problema posto all’inizio di questo lavoro; l’educatore che si schiera con il detenuto, incoraggiando e rinforzando le sue istanze rivendicative e devianti, è davvero dalla sua parte? O favorisce la sua condanna ad una vita da deviante? Anche per l’educatore, dunque, esiste una sorta di scissione; in teoria dovrebbe essere il mediatore tra la realtà esterna e quella carceraria, eppure quando esiste un rapporto di forza, la neutralità non esiste; se non stai con il più debole, aiuti il più forte; se non stai con l’oppresso, stai con l’oppressore. Tertium non datur. Non vorrei dare il senso di una ideologia manichea, ma soltanto evidenziare la contraddittorietà insita nel concetto stesso di ri-educazione in un sistema democratico. Riportiamo un passo tratto da uno studio del Prof. Remo Bassetti:
“…In ogni caso, la rieducazione può pensarsi come semplice ri-socializzazione, ossia induzione al rispetto delle norme di convivenza, o come vera ri-educazione cioè riapprendimento dei principi morali che il reo ha mostrato di non conoscere. Il suffisso “ri” tende ad attenuare ipocritamente il carattere coattivo dell’operazione. Se io vengo ri-educato o ri-socializzato mi viene solo fatto riacquistare ciò che già avevo posseduto. Ciò non è sempre vero ed è anzi palesemente falso quando la pena si rivolge a immigrati cresciuti in un diverso contesto culturale […] che dire se non c’è condivisione di valori perché il reo proviene da una comunità con valori diversi? Per esempi da un sistema culturale dove il senso attribuito alla violenza è differente dal nostro? Essa è un’educazione e si risolve nell’inculcare forzatamente al condannato i valori o quanto meno le condotte tipiche della comunità alla quale è approdato”[10]
Stabilita l’insulsaggine di un approccio educativo finalizzato all’adesione forzata ai valori dominanti, il ruolo dell’educatore può risolversi, come dice Bassetti, in “semplice ri-socializzazione, ossia induzione al rispetto delle norme di convivenza”?
Non esiste un vademecum del buon educatore, e non ci sono formule buone per tutte le situazioni. Ci sono gli educatori; ci sono i soggetti “destinatari di valori”, come vuole una certa pedagogia; e c’è una società complessa. Le cose cambiano a seconda del punto di vista che si assume, è una lezione vecchia che ogni tanto si dimentica; il sistema della premialità, nelle carceri, serve a favorire il la rieducazione dei detenuti, oppure a contenerne il dissenso, esploso in maniera devastante negli anni ’70? I permessi sono un’opportunità di contatto tra carcere e società esterna, o un’arma di ricatto dell’amministrazione penitenziaria per castrare sul nascere ogni istanza rivendicativa? O entrambe le cose?
Un educatore coscienzioso non può avere soluzioni a portata di mano, ma deve confrontarsi con questa problematica; un educatore deve accettare questa contraddizione e portarsela sulle spalle, senza cercare di risolverla in una formula etica da spacciare come uno stupefacente ai suoi “utenti”. La contraddizione c’è, e come abbiamo già detto, quando esiste una prova di forza, non stare da nessuna parte significa stare col più forte. E nascondere la contraddizione, in questo caso, fa il gioco del più forte.
4. Metodologia e prassi dell’intervento rieducativo
L’educatore non trasmette valori, e non rieduca nessuno. Questo è l’assunto da cui partire per provare a ricostruire un’ipotesi di intervento ri-socializzante nel settore della devianza. Ovviamente in questo scritto si intendono proporre soltanto degli spunti; ben altro lavoro sarebbe necessario per affrontare una questione così delicata da un punto di vista dell’ermeneutica quanto da quello etico e sociale.
La devianza segnala sempre una scissione sociale, una frattura che in qualche modo va ricomposta; assodate le problematiche precedentemente rilevate, ovvero la non-neutralità del sistema rispetto alla risposta deviante del soggetto, e dell’educatore rispetto a questa dialettica, l’intervento deve strutturarsi su una modalità di intervento re-integrativa. In pratica, si tratta di fornire all’utente quegli strumenti necessari ad una proficua integrazione sociale, in assenza dei quali la distanza non è colmabile. In particolare, vi sono due ambiti di intervento:
1) Interventi tesi a fornire e favorire l’acquisizione di strumenti in grado di facilitare il reinserimento sociale.
E’ una sfera di intervento di enorme importanza, non necessariamente riducibile al lavoro di un educatore. L’istruzione, la formazione professionale, l’acquisizione di abilità teorico-pratiche (gestione di un giornale, di un sito ecc.) forniscono al soggetto deviante delle capacità e conoscenze che migliorano le sue capacità di interazione con il sistema sociale. Il primo passo per ri-socializzare un soggetto, è metterlo in condizione di partecipare alla vita della comunità. Ovviamente le difficoltà relative all’inserimento anche professionale in società non si risolvono attraverso corsi di formazione. Si tratta solo di fornire degli strumenti; la possibilità concreta di esercitare le abilità apprese si innesta in una problematica più ampia che prevede necessariamente una collegialità nelle modalità di intervento, attraverso la creazione di una rete di relazioni e competenze orientata a superare l’isolamento in cui versano i soggetti devianti.
2) Interventi tesi a fornire l’acquisizione di conoscenze e abilità sociali
2.1.) Interventi tesi a fornire strumenti culturali utili ad un maggior livello di conoscenza delle dinamiche sociali
Ri-socializzare un soggetto significa anche sostenerlo e “accompagnarlo” nella comprensione delle dinamiche sociali di cui è in ogni caso soggetto partecipante. La modalità di intervento filosofica o sociologica è probabilmente la più adatta allo scopo. Una riflessione, non diretta ma facilitata da un educatore preparato, sulla propria condizione sociale, sulle interazioni e gli effetti sulla più ampia compagine sociale, rappresenta indiscutibilmente un passo avanti verso l’integrazione. Il soggetto deve avere gli strumenti culturali per esercitare una critica sulle dinamiche sociali che lo coinvolgono. L’approccio filosofico consente anche un affinamento delle capacità cognitive del soggetto, attraverso strumenti tipici della storia del pensiero e dell’attività dialogica. L’educatore in questo caso agisce da counselor. Diverse sono le conoscenze necessarie ad un operatore per intervenire in questo senso; le tecniche della RET, la Terapia Razionale Emotiva di Ellis[11], sono tra le più efficaci in questo senso. Secondo questa scuola il modo in cui verbalizziamo i nostri vissuti, condiziona a sua volta il nostro modo di vedere e vivere la realtà (in omaggio al pensiero di Epitteto[12] per cui non sono le cose in sé ad essere positive o negative per noi, ma il modo in cui le percepiamo). Per portare un esempio, un errore diffuso è la tendenza a globalizzare eventi e giudizi: “tutti sono contro di me”. Oppure la tendenza a ingigantire e drammatizzare gli eventi, postulandone quasi un’ineluttabilità:”devo riuscire a dirgli quello che penso”, “non posso fare a meno di arrabbiarmi”. Senza addentrarsi nel complesso delle dinamiche di un intervento di Terapia Razionale Emotiva, si vuole sottolineare come intervenendo sugli errori filosofici del soggetto, sui processi contradditori del pensiero, si possono fornire al medesimo delle nuove chiavi di lettura ed interpretazione del reale utili anche ad affinare le proprie capacità introspettive.
2.2) Interventi tesi a fornire abilità sociali
E’ un aspetto generalmente trascurato dagli educatori. Un ri-socializzatore non apprende queste tecniche soltanto per migliorare il proprio livello comunicativo, ma per insegnarle. Non va assolutamente trascurato questo punto; aiutare un soggetto con problemi di disadattamento ad impadronirsi di abilità sociali come la “comunicazione assertiva”, o la capacità di “autocontrollo” significa aprirgli dei nuovi canali comunicativi. Le possibilità di integrazione sono sensibilmente migliorate se il soggetto è padrone di un efficace livello comunicativo.
In conclusione, sarebbe forse auspicabile la sostituzione del termine “educatore” (che di per sé non ha certo una valenza negativa) con quello di ri-socializzatore, oppure facilitatore sociale. Le parole sono importanti, e la dimensione semantica ne traccia anche una progettualità, l’intenzione; e, ad avviso di chi scrive, la priorità è intervenire sul solco invisibile, ma assolutamente tangibile, che squarcia il tessuto sociale; per agire concretamente ed efficacemente su ciò che de facto impedisce la realizzazione di condizioni di uguaglianza, nei diritti e nelle possibilità; la stessa uguaglianza di cui si riempiono la bocca i suoi primi usurpatori.
[1] Freire P., La pedagogia degli oppressi, Torino, EGA, 2004
[2] Howard J., The state of the prisons in England and Wales, Montclair, N.J., 1792
[3] Beccarla C., Dei Delitti e delle Pene, Milano, Rizzoli, 1994
[4] Sellin T., Culture conflict and crime, New York, Social Science Research Council, Bulletin 41, 1938
[5] Merton R.K., Teoria e struttura sociale, vol.II: Studi sulla struttura sociale e culturale, Bologna, Il Mulino, 2000
[6] Cohen A.K., Ragazzi delinquenti, Milano, Feltrinelli, 1981
[7] Tannenbaum F., Crime and the community, Boston, Mass., Ginn., 1938
[8] Alex Haley (a cura di), Autobiografia di Malcom X, Torino, Einaudi, 1967
[9] Focault M., Sorvegliare e punire – Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2004
[10]Bassetti r., Derelitti e delle pene – Carcere e giustizia da Kant all’indultino, Roma, Editori Riuniti, 2003, p.61
[11] Ellis A., Ragione ed emozione in psicoterapia, Roma, Astrolabio - Ubaldini editore, 1989
[12] Epitteto, Manuale
La Politica del Benessere, Ottobre 2006
Qualunque concezione pedagogica sottende alle proprie metodologie e pratiche educative una problematica etica. Perché l’educazione non si risolva in una serie di applicazioni prive di un progetto culturale riconoscibile, dunque nella logica di un cieco asservimento al sistema normativo di riferimento, cioè quello dominante, è necessario che riflessione pedagogica e filosofica procedano in maniera parallela. Ma la problematica etica nasce con l’uomo, e come l’uomo si rivela un processo in continuo divenire, impossibile da cristallizzare ma anche da accantonare, poiché assolutamente imprescindibile. Ogni filosofia dell’educazione ha una matrice di natura sociale, nel senso che la pratica educativa nasce comunque da un’esigenza di integrazione, per cui il soggetto passivo/attivo del processo pedagogico deve essere preparato ad assumere il suo ruolo nel contesto sociale; e deve essere un ruolo “socialmente accettabile”. Ad una concezione di un uomo totalmente “per lo stato”, la cui formazione è dunque orientata esclusivamente ad un suo proficuo inserimento nel tessuto sociale (proficuo per la società in abstracto, non per l’individuo), si contrappone una concezione umanista, dove l’uomo, con le sue risorse e i suoi bisogni, è posto al centro del disegno educativo. Ma anche in questo caso, resta imprescindibile la funzione sociale della pedagogia; nessuna struttura sociale, attraverso tutte le sue risorse educative (famiglia, scuola, chiesa, mass media, ecc.) può educare un soggetto al conseguimento della propria felicità, libertà o quel che sia, prescindendo dal resto della collettività. Educare un soggetto alla “libertà”, dove la libertà è intesa perseguibile finché non intacca quella di qualcun altro, significa educare all’integrazione ed inclusione sociale. Ma quello che interessa, ai fini della nostra riflessione, è stabilire questo principio: la concezione pedagogica odierna prevede la formazione di soggetti in grado di vivere attivamente la collettività, ovvero di buoni cittadini, così come nella concezione democratica del termine. Dunque, uomini integrati positivamente nella società, ma in una società che tenga conto del valore imprescindibile dell’individuo, dei suoi diritti fondamentali e universali. La cultura pedagogica attuale si pone dunque il problema della felicità degli uomini, ma della loro felicità “con” gli altri uomini. Questa “corrispondenza d’amorosi sensi” è possibile soltanto, secondo quest’ottica, in una società democratica.
Apparentemente abbiamo a che fare con una concezione perfetta, limpida, priva di qualunque ambiguità; l’uomo al centro del sistema di valori, motore pensante e fattivo della collettività; ma anche i più ferventi sostenitori del sistema democratico non possono negare che si tratta di un sillogismo che contraddice continuamente le sue premesse. Che tutti gli uomini siano uguali è ovviamente contraddetto da qualunque raffronto con la realtà empirica; si tratta di un principio di riferimento, al limite di un’intenzione, “gli uomini devono essere tutti uguali”, ma ovviamente non è una realtà di fatto. Le possibilità sono due: 1) il sistema democratico non è ancora pienamente maturo, ma riuscirà prima o poi a garantire una reale uguaglianza tra i suoi cittadini; 2) il sistema democratico poggerà sempre su questa contraddizione, e potrà sopravvivere soltanto in virtù del permanere di questa discrepanza tra i suoi cittadini.
In entrambi i casi, esiste un problema etico di fondo di grande spessore. Di fatto, esistono cittadini, e dunque uomini, per quanto detto sopra, di serie A e di serie B, detto nel modo più banale possibile. Come si pone un educatore di fronte ad un emarginato, un soggetto svantaggiato, un uomo ai margini? Educatori che hanno fatto del loro lavoro quasi una missione, convinti dell’importanza di riscattare anche il più emarginato degli uomini, tradiscono una segreta tendenza ad appiattirsi sulle posizioni del sistema dominante e, dunque, a sacrificare anche i ricettori dell’azione pedagogica, nel tentativo di integrarli in un sistema che, di fatti, li mette ai margini. Perché un emarginato dovrebbe introiettare il sistema di valori della società che, di fatto, fa di lui un escluso? In questo caso integrarsi si tradurrebbe in un semplice asservimento.
Ma è davvero dalla parte dell’emarginato, l’educatore che invece sostiene e rinforza la volontà di non assoggettarsi del suo assistito, lasciandolo così permanere nella sua marginalità, non asservito ma schiacciato?
La verità è, probabilmente, che non è pensabile che il padrone e il servo abbiano lo stesso sistema di valori, la stessa etica; quando è così, è il primo che ha imposto le proprie regole al secondo. Di conseguenza, non ha senso un sistema pedagogico che si rivolga, come scrive Freire[1], agli “oppressori e agli oppressi” con le stesse parole, le stesse logiche. Ma esiste, oggi, una “pedagogia degli oppressi”? Evidentemente no, e la tendenza dominante è quella di riportare “le pecorelle smarrite” all’ovile, magari riconoscendo l’ingiustizia di fondo, ma stigmatizzando comunque i gesti “non allineati”, attraverso quel sistema di valori che appartiene agli oppressori e anche agli educatori. Ma può un educatore avere il medesimo sistema di valori degli oppressori? E viceversa, potrebbe invece assumere completamente quello degli oppressi?
La mancanza di un sistema di valori di riferimento alternativo a quello dominante, per gli emarginati, porta a due conseguenze probabilmente inevitabili: innanzitutto, e ovviamente assieme ad una concausa di motivazioni, la nascita di sub-culture devianti, prive di un reale sistema di valori alternativo. Le sub-culture assumono i valori di riferimento delle classi dominanti ma, non potendo accedervi con gli stessi mezzi, ricorrono all’illegalità, ristrutturando il proprio sistema etico di riferimento in questa nuova dimensione, creando una vera e propria “ideologia criminale”. In secondo luogo, e il problema riguarda gli educatori, la concretizzazione di un’impasse senza sbocchi, dove l’unica via d’uscita possibile sembra l’asservimento, prospettiva che non può tranquillizzare lo spirito di un educatore coscienzioso.
2. L’ambiguità dell’intervento nelle carceri.
La questione evidenzia tutta la sua problematicità se l’attenzione viene spostata dal concetto di educazione a quello di ri-educazione. In questo senso tutta la contraddittorietà della cultura pedagogica odierna emerge in maniera incontrovertibile. Poniamo il caso della ri-educazione dei detenuti, cioè di soggetti devianti che devono essere inseriti nuovamente nel contesto sociale da cui sono stati provvisoriamente isolati; la riforma penitenziaria 354/1975 ha sancito la funzione rieducativa e risocializzante della pena, attraverso una serie di importanti innovazioni tra cui l’inserimento della figura professionale dell’educatore, prima previsto soltanto nell’ambito della giustizia minorile. Ma la concezione rieducativa della pena ha ovviamente radici più antiche e profonde; Giovanni Howard[2] in Inghilterra e Cesare Beccarla[3] in Italia, nella seconda metà del ‘700 hanno gettato le basi della odierna concezione della pena. Non è questa la sede per una ricostruzione della storia della cultura penalista e delle istituzioni totali, basti segnalare che l’orientamento attuale è quello ri-educativo, seppure tra moltissime contraddizioni, dovute sia allo stato effettivo del sistema custodiale (sovraffollamento, inadeguatezza delle strutture), che di fatto non consente l’attuazione delle intenzioni educative, sia ad alcune incongruenze tra i vari interventi del Legislatore susseguitesi negli anni. Ad es., la Gozzini e la Simeone-Saraceni che, introducendo la possibilità di accedere alle misure alternative alla detenzione direttamente dalla libertà, non consentono l’osservazione scientifica della personalità, punto nevralgico della funzione rieducativa secondo i dettami della riforma del 1975. Si tratta di interventi per molti versi positivi, poiché tesi ad evitare il contatto con il difficile ambiente carcerario ad autori di reati minori; inoltre rappresentano anche un modo per reagire al dramma (perché di dramma si tratta) del sovraffollamento carcerario e, nondimeno, a problemi di natura economica. Si aprono tuttavia ulteriori contraddizioni, tenendo conto della tendenza degli ultimi anni a politiche più repressive e al ritorno dell’opinione pubblica verso risposte orientate ad una concezione retributiva della pena. Il discorso è ampio e meriterebbe ben altro approfondimento, ma come già detto esula dall’obiettivo di questo lavoro.
Ribadiamo quanto già asserito: l’attuale orientamento di pensiero rispetto al trattamento delle devianze è di tipo ri-educativo. Qual è la premessa etica di tale concezione? Il soggetto deviante va risocializzato, cioè reinserito in maniera positiva nella società. Questa è la premessa da cui partire; qual è la motivazione? Chi è che deve beneficiare di questo intervento, la società o il soggetto deviante? Coerentemente con la concezione pedagogica dominante, la distinzione ha poco senso. Tanto la struttura sociale quanto l’individuo singolo trarrebbero un indubbio beneficio da una proficua integrazione. L’attenzione al soggetto è evidente, altrimenti non ci sarebbe motivo di non ricorrere alla pena di morte. Questa pratica ripugna alla coscienza collettiva in quanto tiene conto soltanto di un’esigenza di sicurezza sociale (e anche su questo ci sarebbe molto da discutere), prescindendo dal sacrosanto diritto dell’individuo alla vita.
3. Le ragioni sociali della devianza
La teoria del conflitto culturale di Sellin[4] si fonda sull’idea di norme di condotta, ovvero di regole che orientano il comportamento. Queste norme di condotta hanno una matrice culturale, e sono stabilite in funzione delle esigenza dei gruppi dominanti. Ovvero, coloro che detengono il potere sociale e politico, hanno in queste norme un efficace strumento per imporre la propria idea di devianza, di crimine. Queste norme a loro volta sono l’espressione di un particolare gruppo sociale. In pratica, se una cultura approva un atto che configge con l’orientamento culturale dominante, allora quell’atto diventa criminale.
Ancora più significativa ai fini di questo lavoro è la teoria dell’anomia così come espressa a Merton[5]. Lo studioso segnalò che nelle società alcune mete sono particolarmente messe in risalto (successo economico), ma che non tutti i mezzi per conseguire queste mete sono da considerarsi legittimi. Tuttavia non tutti i membri del contesto sociale hanno le stesse possibilità di conseguire i medesimi obiettivi con mezzi legittimi, e, conseguentemente, tenteranno di raggiungere il risultato anche con mezzi illegittimi. Una società è anomica quando le cause della disuguaglianza sono da imputare alla struttura sociale stessa. In pratica l’anomia è una incongruenza della società che propone delle mete senza però offrire a tutti i mezzi per conseguirle. Ovviamente non tutte le mete sono egualmente appetibili da tutti gli individui o le classi sociali. Merton vuole riferirsi fondamentalmente ad un messaggio culturale, il quale legittima la competizione per l’ascesa e la mobilità sociale per coloro i quali sono interessati a raggiungerla. E’ l’enfasi con cui una società insiste su alcune mete che segna il grado di anomia di una società stessa (Merton segnala in particolare il caso dell’America e del rilievo che ha in essa in conseguimento del successo economico). In sostanza, la teoria dell’anomia di Merton spiega come la struttura sociale stessa contribuisca a produrre devianza.
Occupandosi della delinquenza giovanile, Cohen[6] presenta un ragionamento interessante: i bambini delle classi inferiori hanno i loro primi problemi di integrazione sin dalle scuole elementari, dove si trovano a misurarsi con bambini delle classi medie e dove vengono valutati da insegnanti con parametri di valutazione appartenenti alla classe media, estranei alla realtà del bambino. La condivisione, la definizione di obiettivi a lungo termine, il rispetto della proprietà; sono valori che ovviamente appartengono a chi possiede, a chi vive in un ambiente familiare dove si è abituati ad investire sul futuro, dove esistono delle aspettative per l’avvenire, dove esiste il culto del lavoro come mezzo valido per ottenere ciò che si desidera. Questo crea una notevole discrepanza tra questi ragazzi e quelli delle classi medie; anche gli insegnanti vengono percepiti, diciamo, dalla stessa parte degli alunni più privilegiati. Da questi presupposti teorici, è facile aprire un collegamento non azzardato con la cosiddetta teoria dell’etichettamento. Tannenbaum[7] ha scritto che quando un bambino viene scoperto a commettere un’azione “deviante”, in qualche modo gli viene affissa un’”etichetta”. Ciò qualifica il bambino come deviante, ed influisce sulla rappresentazione che il soggetto ha di sé; ma quest’etichetta è più che visibile, tanto che gli altri reagiranno non più al bambino, ma alla sua etichetta; è l’etichattamento, dunque, la base della devianza. In pratica, una volta piazzata l’etichetta, insorgono due meccanismi diversi:
1. la tendenza dell’osservatore a vedere l’etichetta anziché il soggetto che ne è portatore
2. l’interiorizzazione dell’etichetta da parte del suo portatore, fino all’autodefinizione di “deviante”
Due meccanismi diversi, dicevamo, ma convergenti nel provocare un’espansione della devianza, fino alla costruzione di una “carriera deviante”. E’ d’altra parte evidente che i soggetti delle cosiddette classi inferiori sono più facilmente suscettibili di essere etichettati. In generale le classi più agiate tendono a definire devianti quei comportamenti delinquenziali che afferiscono a situazioni di povertà ed emarginazione, riservando un trattamento ben diverso agli illeciti dei cosiddetti “colletti bianchi”. Ragion per cui chi ruba dei candelabri, come il Jean Valjean dei Miserabili, è un ladro; chi commette un falso in bilancio, è tutt’al più un disonesto.
Particolarmente interessanti sono anche le teorie sulle sub-culture devianti. Al di là della differenza nell’approccio, fondamentalmente convergono sull’assunto per cui i membri della società condividono un sistema di valori, di norme, di regole, che pongono alcuni di essi al di sopra degli altri. In qualche modo ciò rappresenta la legittimazione, anche a livello culturale, dell’ineguaglianza tra gli uomini.
Le disuguaglianze sociali sono funzionali alla società di mercato, dunque la devianza è un fenomeno congiunturale alla democrazia liberale. Potremmo spingerci oltre, discutendo sulla possibilità che il crimine stesso sia funzionale al sistema economico; ma è un argomento complesso, e comunque poco utile ai fini di questo lavoro. Che si tratti di un elemento costitutivo del sistema, o di una conseguenza inevitabile della sua stessa strutturazione, la sostanza non cambia. La società di mercato provoca devianza. E non spaventi questa conclusione; la democrazia rappresentativa liberale, specie in questi anni particolarmente allarmanti dal punto di vista delle relazioni internazionali, è diventata nell’immaginario collettivo un baluardo, l’unica forma di governo in grado di garantire e difendere libertà e diritti. Non si sta sostenendo la superiorità di teocrazie o dittature varie, ci mancherebbe altro, né postulando eversivamente un sistema migliore di quello democratico. L’assioma per cui “la società di mercato provoca devianza” è quanto ci interessa per proseguire nella riflessione.
Dopo quanto stabilito, rielaborando l’impianto dell’odierna concezione pedagogica, la stonatura è immediatamente individuabile. Praticamente, ri-educare e ri-socializzare significa “asservire”. Il soggetto deviante deve interiorizzare il sistema di valori dominante, cioè la sovrastruttura ideologica del sistema che l’ ha emarginato. Ci si aspetta dal deviante da rieducare, l’adesione ad un sistema di valori e regole funzionali all’oppressione della sua stessa classe. La finalità rieducativa svela tutta la sua ipocrisia, la sua intollerabile mistificazione. Malcom X[8], nella sua autobiografia, evidenzia il suo irriducibile disprezzo per una società che prima schiaccia gli individui con il suo peso, e poi li punisce se non riescono a sostenerlo. La nuova cultura penitenziaria introduce un elemento in più: non basta punire i soggetti messi ai margine dal sistema, devono anche introiettare il sistema di valori dominante, devono considerare giusta la loro punizione. Difficile immaginare qualcosa di più de-socializzante e de-strutturante. I devianti dovrebbero trasformarsi in tanti Zio Tom, sudditi per vocazione, passivi sostenitori delle istanze del padrone. Ma la trappola del sistema è sempre la stessa; sicuramente la qualità (parola forse inappropriata) della vita carceraria è migliorata con l’avvento dell’ideologia rieducativa. Qualcuno ha sostenuto che il carcere debba servire da “contenitore sociale”, la cui finalità è non soltanto arginare gli effetti devastanti della devianza diffusa, ma anche inibire le istanze di una classe sociale considerata “rivoluzionaria”, dunque pericolosa per il mantenimento dello status quo. Ai tempi della rivoluzione industriale, nelle carceri finivano soprattutto appartenenti alla classe lavoratrice. Secondo Focault[9] ciò era strumentale anche da un punto di vista economico, sfruttando il lavoro dei detenuti. Oggi nelle carceri troviamo sempre più spesso immigrati e tossicodipendenti. Ad ogni modo, se l’obiettivo è asservire anche culturalmente le classi più disagiate, la nuova finalità rieducativa si presta magnificamente allo scopo. E gli educatori sono i missionari di questa nuova frontiera dell’asservimento culturale, dell’accettazione della propria marginalità; e, contemporaneamente, sostengono i reclusi nella rivendicazione dei loro diritti di “detenuti”. Perché come detenuti hanno dei diritti, perché “sono” dei detenuti, non cittadini, detenuti e basta; e come tali, portatori di diritti.
Quale ruolo scomodo quello dell’educatore penitenziario. E’ la punta dell’iceberg, la problematicità della sua condizione è l’ipostatizzazione di una crisi dell’intera cultura pedagogica, percepita o meno che sia. Un educatore, se non vuole essere la faccia pulita di un sistema oppressivo ed ipocrita, deve liberarsi da questa insulsa mentalità risocializzante, dal piattume (e pattume) concettuale che, attraverso il sistema della “premialità”, elargisce premi a chi da prova di maggior asservimento e docilità. E tuttavia permane il problema posto all’inizio di questo lavoro; l’educatore che si schiera con il detenuto, incoraggiando e rinforzando le sue istanze rivendicative e devianti, è davvero dalla sua parte? O favorisce la sua condanna ad una vita da deviante? Anche per l’educatore, dunque, esiste una sorta di scissione; in teoria dovrebbe essere il mediatore tra la realtà esterna e quella carceraria, eppure quando esiste un rapporto di forza, la neutralità non esiste; se non stai con il più debole, aiuti il più forte; se non stai con l’oppresso, stai con l’oppressore. Tertium non datur. Non vorrei dare il senso di una ideologia manichea, ma soltanto evidenziare la contraddittorietà insita nel concetto stesso di ri-educazione in un sistema democratico. Riportiamo un passo tratto da uno studio del Prof. Remo Bassetti:
“…In ogni caso, la rieducazione può pensarsi come semplice ri-socializzazione, ossia induzione al rispetto delle norme di convivenza, o come vera ri-educazione cioè riapprendimento dei principi morali che il reo ha mostrato di non conoscere. Il suffisso “ri” tende ad attenuare ipocritamente il carattere coattivo dell’operazione. Se io vengo ri-educato o ri-socializzato mi viene solo fatto riacquistare ciò che già avevo posseduto. Ciò non è sempre vero ed è anzi palesemente falso quando la pena si rivolge a immigrati cresciuti in un diverso contesto culturale […] che dire se non c’è condivisione di valori perché il reo proviene da una comunità con valori diversi? Per esempi da un sistema culturale dove il senso attribuito alla violenza è differente dal nostro? Essa è un’educazione e si risolve nell’inculcare forzatamente al condannato i valori o quanto meno le condotte tipiche della comunità alla quale è approdato”[10]
Stabilita l’insulsaggine di un approccio educativo finalizzato all’adesione forzata ai valori dominanti, il ruolo dell’educatore può risolversi, come dice Bassetti, in “semplice ri-socializzazione, ossia induzione al rispetto delle norme di convivenza”?
Non esiste un vademecum del buon educatore, e non ci sono formule buone per tutte le situazioni. Ci sono gli educatori; ci sono i soggetti “destinatari di valori”, come vuole una certa pedagogia; e c’è una società complessa. Le cose cambiano a seconda del punto di vista che si assume, è una lezione vecchia che ogni tanto si dimentica; il sistema della premialità, nelle carceri, serve a favorire il la rieducazione dei detenuti, oppure a contenerne il dissenso, esploso in maniera devastante negli anni ’70? I permessi sono un’opportunità di contatto tra carcere e società esterna, o un’arma di ricatto dell’amministrazione penitenziaria per castrare sul nascere ogni istanza rivendicativa? O entrambe le cose?
Un educatore coscienzioso non può avere soluzioni a portata di mano, ma deve confrontarsi con questa problematica; un educatore deve accettare questa contraddizione e portarsela sulle spalle, senza cercare di risolverla in una formula etica da spacciare come uno stupefacente ai suoi “utenti”. La contraddizione c’è, e come abbiamo già detto, quando esiste una prova di forza, non stare da nessuna parte significa stare col più forte. E nascondere la contraddizione, in questo caso, fa il gioco del più forte.
4. Metodologia e prassi dell’intervento rieducativo
L’educatore non trasmette valori, e non rieduca nessuno. Questo è l’assunto da cui partire per provare a ricostruire un’ipotesi di intervento ri-socializzante nel settore della devianza. Ovviamente in questo scritto si intendono proporre soltanto degli spunti; ben altro lavoro sarebbe necessario per affrontare una questione così delicata da un punto di vista dell’ermeneutica quanto da quello etico e sociale.
La devianza segnala sempre una scissione sociale, una frattura che in qualche modo va ricomposta; assodate le problematiche precedentemente rilevate, ovvero la non-neutralità del sistema rispetto alla risposta deviante del soggetto, e dell’educatore rispetto a questa dialettica, l’intervento deve strutturarsi su una modalità di intervento re-integrativa. In pratica, si tratta di fornire all’utente quegli strumenti necessari ad una proficua integrazione sociale, in assenza dei quali la distanza non è colmabile. In particolare, vi sono due ambiti di intervento:
1) Interventi tesi a fornire e favorire l’acquisizione di strumenti in grado di facilitare il reinserimento sociale.
E’ una sfera di intervento di enorme importanza, non necessariamente riducibile al lavoro di un educatore. L’istruzione, la formazione professionale, l’acquisizione di abilità teorico-pratiche (gestione di un giornale, di un sito ecc.) forniscono al soggetto deviante delle capacità e conoscenze che migliorano le sue capacità di interazione con il sistema sociale. Il primo passo per ri-socializzare un soggetto, è metterlo in condizione di partecipare alla vita della comunità. Ovviamente le difficoltà relative all’inserimento anche professionale in società non si risolvono attraverso corsi di formazione. Si tratta solo di fornire degli strumenti; la possibilità concreta di esercitare le abilità apprese si innesta in una problematica più ampia che prevede necessariamente una collegialità nelle modalità di intervento, attraverso la creazione di una rete di relazioni e competenze orientata a superare l’isolamento in cui versano i soggetti devianti.
2) Interventi tesi a fornire l’acquisizione di conoscenze e abilità sociali
2.1.) Interventi tesi a fornire strumenti culturali utili ad un maggior livello di conoscenza delle dinamiche sociali
Ri-socializzare un soggetto significa anche sostenerlo e “accompagnarlo” nella comprensione delle dinamiche sociali di cui è in ogni caso soggetto partecipante. La modalità di intervento filosofica o sociologica è probabilmente la più adatta allo scopo. Una riflessione, non diretta ma facilitata da un educatore preparato, sulla propria condizione sociale, sulle interazioni e gli effetti sulla più ampia compagine sociale, rappresenta indiscutibilmente un passo avanti verso l’integrazione. Il soggetto deve avere gli strumenti culturali per esercitare una critica sulle dinamiche sociali che lo coinvolgono. L’approccio filosofico consente anche un affinamento delle capacità cognitive del soggetto, attraverso strumenti tipici della storia del pensiero e dell’attività dialogica. L’educatore in questo caso agisce da counselor. Diverse sono le conoscenze necessarie ad un operatore per intervenire in questo senso; le tecniche della RET, la Terapia Razionale Emotiva di Ellis[11], sono tra le più efficaci in questo senso. Secondo questa scuola il modo in cui verbalizziamo i nostri vissuti, condiziona a sua volta il nostro modo di vedere e vivere la realtà (in omaggio al pensiero di Epitteto[12] per cui non sono le cose in sé ad essere positive o negative per noi, ma il modo in cui le percepiamo). Per portare un esempio, un errore diffuso è la tendenza a globalizzare eventi e giudizi: “tutti sono contro di me”. Oppure la tendenza a ingigantire e drammatizzare gli eventi, postulandone quasi un’ineluttabilità:”devo riuscire a dirgli quello che penso”, “non posso fare a meno di arrabbiarmi”. Senza addentrarsi nel complesso delle dinamiche di un intervento di Terapia Razionale Emotiva, si vuole sottolineare come intervenendo sugli errori filosofici del soggetto, sui processi contradditori del pensiero, si possono fornire al medesimo delle nuove chiavi di lettura ed interpretazione del reale utili anche ad affinare le proprie capacità introspettive.
2.2) Interventi tesi a fornire abilità sociali
E’ un aspetto generalmente trascurato dagli educatori. Un ri-socializzatore non apprende queste tecniche soltanto per migliorare il proprio livello comunicativo, ma per insegnarle. Non va assolutamente trascurato questo punto; aiutare un soggetto con problemi di disadattamento ad impadronirsi di abilità sociali come la “comunicazione assertiva”, o la capacità di “autocontrollo” significa aprirgli dei nuovi canali comunicativi. Le possibilità di integrazione sono sensibilmente migliorate se il soggetto è padrone di un efficace livello comunicativo.
In conclusione, sarebbe forse auspicabile la sostituzione del termine “educatore” (che di per sé non ha certo una valenza negativa) con quello di ri-socializzatore, oppure facilitatore sociale. Le parole sono importanti, e la dimensione semantica ne traccia anche una progettualità, l’intenzione; e, ad avviso di chi scrive, la priorità è intervenire sul solco invisibile, ma assolutamente tangibile, che squarcia il tessuto sociale; per agire concretamente ed efficacemente su ciò che de facto impedisce la realizzazione di condizioni di uguaglianza, nei diritti e nelle possibilità; la stessa uguaglianza di cui si riempiono la bocca i suoi primi usurpatori.
[1] Freire P., La pedagogia degli oppressi, Torino, EGA, 2004
[2] Howard J., The state of the prisons in England and Wales, Montclair, N.J., 1792
[3] Beccarla C., Dei Delitti e delle Pene, Milano, Rizzoli, 1994
[4] Sellin T., Culture conflict and crime, New York, Social Science Research Council, Bulletin 41, 1938
[5] Merton R.K., Teoria e struttura sociale, vol.II: Studi sulla struttura sociale e culturale, Bologna, Il Mulino, 2000
[6] Cohen A.K., Ragazzi delinquenti, Milano, Feltrinelli, 1981
[7] Tannenbaum F., Crime and the community, Boston, Mass., Ginn., 1938
[8] Alex Haley (a cura di), Autobiografia di Malcom X, Torino, Einaudi, 1967
[9] Focault M., Sorvegliare e punire – Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2004
[10]Bassetti r., Derelitti e delle pene – Carcere e giustizia da Kant all’indultino, Roma, Editori Riuniti, 2003, p.61
[11] Ellis A., Ragione ed emozione in psicoterapia, Roma, Astrolabio - Ubaldini editore, 1989
[12] Epitteto, Manuale
La Politica del Benessere, Ottobre 2006
RebT: Riflessioni sul concetto di “doverizzazione”
Il presente scritto vuole essere un contributo allo studio e all’approfondimento teorico della disciplina o tecnica terapeutica oggi nota come Rebt (Rational Emotive Behavior Therapy), ovvero la tipologia di terapia ideata e sviluppata nei suoi principi fondamentali dal Dott. Albert Ellis[1]. Gli elementi distintivi e di maggior interesse in questo approccio sono fondamentalmente due:
1. L’importanza delle verbalizzazioni, ovvero di ciò che diciamo a noi stessi, ai fini della nostra condotta di vita e della nostra stessa felicità
Ellis sostiene che qualunque evento negativo abbia caratterizzato, o addirittura traumatizzato la nostra vita, se continua a tormentarci anche quando l’evento si è consumato, è in virtù di una nostra verbalizzazione interiore. Attraverso questa verbalizzazione, noi consentiamo all’evento negativo di continuare a produrre i suoi effetti nefasti sulla nostra personalità. Proviamo a portare un esempio:
Luigi è un bambino di 13 anni, e frequenta la terza media. E’ sempre stato uno dei primi della classe, sin dalle elementari. Tuttavia, quel giorno l’insegnante di matematica ha deciso di fare un compito in classe a sorpresa. Luigi non è preparato e rischia di prendere il suo primo brutto voto, proprio l’anno in cui ci sono gli esami di terza media. La sua compagna di banco Sara, invece, sembra molto spedita nello svolgere le complesse operazioni algebriche. Luigi decide che la cosa migliore da fare, al momento, è cercare di copiare. Ma non essendo pratico, viene facilmente scoperto dalla professoressa. Questa strappa il compito dalle sue mani, obbligandolo in questo modo a consegnare praticamente in bianco. Inoltre, l’insegnante non manca di esprimergli tutta la sua delusione e il suo sdegno, davanti a tutta la classe. Luigi trova la situazione insopportabile, non ha il coraggio di alzare lo sguardo dal banco per non incontrare gli occhi della professoressa e dei suoi compagni. L’evento è per lui talmente significativo, che ne porterà i segni fino in età adulta, sotto forma di una certa insicurezza o disagio quando è a rischio di disapprovazione.
Cosa è successo a Luigi? L’emozione da cui è stato travolto quel giorno in classe è vergogna, imbarazzo, più semplicemente paura, timore di scontrarsi con la disapprovazione degli altri. Ma cosa ha permesso a questo malessere di continuare ad essere presente nella vita di Luigi, al punto di condizionarlo anche in età adulta? Secondo i principi della Rebt, la causa è da cercare in ciò che Luigi ha detto a se stesso in quel momento, strutturando il pensiero nella forma di una massima e inserendola nella propria filosofia di vita.
Probabilmente Luigi nel momento della vergogna si è parlato in questo modo:”tutti mi stanno disapprovando; è una sensazione orribile, insopportabile, e non voglio doverla provare mai più!”. Quando ci accade un evento spiacevole, se lo “registriamo” in maniera irrazionale, è come se contraessimo una malattia. Per fortuna è tutt’altro che impossibile guarirne. Luigi ha contratto questo morbo, poiché ogni qualvolta si trova a dover affrontare una disapprovazione, vive la cosa come “orribile e insopportabile”; ma, peggio ancora, è preda di notevoli ansie quando semplicemente rischia la disapprovazione, diventando così inibito e insicuro.
Per riconoscere le nostre verbalizzazioni negative, è particolarmente efficace lo schema A-B-C, introdotto sempre da Ellis. A sta ad indicare l’evento attivante, C il sintomo, l’effetto. B è l’elemento che congiunge A e C, ovvero la verbalizzazione. Lasciamo in pace Luigi e facciamo un altro esempio:
Antonello ha un’avventura con Elisabetta, una bella ragazza che frequenta la sua stessa comitiva. Le cose però non vanno bene, poiché quella sera Antonello, forse perché particolarmente stanco o emozionato, non riesce ad avere un’erezione. Antonello è turbato, ma sa che si tratta di un episodio isolato, per cui non fa drammi e decide di uscire ancora con Elisabetta. Ma Elisabetta si confida con le amiche, che maliziosamente fanno arrivare la voce ai ragazzi. Antonello diventa così oggetto di doppi sensi e allusioni; lui si mostra sicuro e sta allo scherzo, ma in realtà è disperato, al punto di arrivare a pensare al suicidio.
Questo piccolo racconto ci offre lo spunto per evidenziare, attraverso lo schema A-B-C, un esempio di verbalizzazione irrazionale e uno di verbalizzazione razionale. Nel primo caso:
A: evento attivante = prese in giro degli amici sulla sua scarsa virilità
C: sintomo = disperazione, desiderio di farla finita
Bi: verbalizzazione irrazionale = “i miei amici mi considerano un impotente; questa è una cosa assolutamente insopportabile, non è possibile vivere in questo modo!”
Bi rappresenta dunque la verbalizzazione irrazionale. L’importanza che Antonello dà all’opinione dei propri amici, almeno riguardo il tema mascolinità, è tale da far si che l’evento A possa provocare C. Per molte altre persone, A non avrebbe potuto mai provocare C. Ma andiamo avanti, perché come ho detto il racconto precedente offre ad Antonello l’opportunità di mostrare anche una forma di pensiero più razionale:
A: evento attivante = Defaiance con Elisabetta
C: sintomo = dispiacere, leggero turbamento
Br: verbalizzazione razionale = il fatto che abbia avuto un problema con Elisabetta, non fa di me un impotente. Uscendo ancora con lei, sarà evidente che si è trattato di un episodio isolato.
In questo secondo caso, Antonello si mostra molto razionale ed equilibrato; infatti il sintomo è quello appropriato, ovvero un normale dispiacere. La ragione per cui in un caso Antonello riesce ad essere così razionale, e in un altro invece esattamente l’opposto, è probabilmente da cercare nell’importanza che egli conferisce all’opinione degli amici, e quindi in un’ulteriore verbalizzazione.
Mario Di Pietro nell’edizione italiana del testo di Ellis L’Autoterapia Razionale Emotiva[2], evidenzia come le più frequenti idee irrazionali possano essere sottese al concetto di Doverizzazione. Di Pietro sintetizza così:
Doverizzazioni su se stessi («Io devo agire bene ed essere approvato da tutte le persone per me significative, altrimenti sono un assoluto incapace ed è terribile»).
Doverizzazioni sugli altri («Gli altri devono trattarmi bene e agire come io penso che debbano assolutamente agire, altrimenti sono delle carogne, dei mascalzoni e meritano di pagarla»).
Doverizzazioni sulle condizioni di vita («Le cose che mi succedono devono essere proprio come io pretendo che siano e tutto deve essere facile e gradevole, altrimenti la vita è insopportabile»).
Il modo di lavorare sulle verbalizzazioni sarà illustrato al punto 2. Prima però vorrei sottolineare un altro aspetto importante della Rebt che si può evincere dal punto 1. L’importanza che questa disciplina attribuisce al pensiero e alla riflessione filosofica. Già nei suoi presupposti fondamentali infatti la Rebt rimanda al pensiero dello stoico Epitteto, per cui non sono le cose in sé ad essere dannose o proficue per noi, ma il modo in cui le percepiamo[3]. Al di là del merito, è notevole il ruolo che la riflessione filosofica assume non soltanto nel corpo teorico, ma nella stessa pratica terapeutica della Rebt. E’ interessante in questo senso evidenziare l’attenzione di cui è stata oggetto la riflessione filosofica nelle ultime decadi all’interno del dibattito terapeutico. In particolare vogliamo riferirci al counselling filosofico e alla cultura dell’intervento non prettamente-curativo che, a partire dalla riflessione di Achenbach[4], ha assunto proporzioni interessanti anche in Italia, in special modo per il lavoro e l’opera di Umberto Galimberti.
Il counselling (o counseling) filosofico è una relazione d’aiuto in cui, attraverso gli strumenti del dibattito filosofico, attivando le risorse del consultante stesso, si propone di facilitare e stimolare i processi riflessivi e di chiarificazione. La definizione è necessariamente generica e suscettibile di diversa declinazione, a seconda della scuola di pensiero cui afferisce. Tuttavia, nucleo centrale è la problematizzazione, piuttosto che risoluzione, dei propri vissuti emotivi e cognitivi.
Il corpo dottrinale della Rebt fornisce al counsellor filosofico una serie di tecniche e strumenti culturali di indubbia efficacia terapeutica, e sarebbe utile ed interessante, ad avviso di chi scrive, l’apertura di una riflessione su questo tema.
Chiusa questa parentesi, presentiamo il punto 2, ovvero il secondo elemento di particolare interesse nella Rebt:
2. L’importanza data al ruolo del “cliente” nel processo terapeutico.
Naturalmente non esiste metodo terapeutico che possa prescindere dal paziente; nella Rebt, però, il ruolo del cliente è assolutamente attivo. Anzi, in ultima analisi la Rebt è un metodo che, una volta appresi i suoi concetti fondamentali, può anche essere riproposto autonomamente in diverse situazioni. Questo non vuole assolutamente dire che si possa prescindere dalla figura del terapeuta, ma soltanto sottolineare il notevole protagonismo del cliente in un intervento di Rebt.
In pratica, il metodo della Rebt può essere così illustrato:
· Acquisizione di una serie di insight da parte del cliente
· Ricerca delle verbalizzazione irrazionali attraverso il sistema A-B-C e riformulazione razionale attraverso il disputing
· Esercizi di natura “comportamentale” per insegnarci quanto appreso attraverso il disputing e la discussione delle nostre verbalizzazioni. Questo perché la Rebt non è razionalista, e dunque non sostiene l’autosufficienza della ragione nel produrre un cambiamento, bensì la necessità di pratiche ed esercitazioni costanti
L’insight indica una consapevolezza, un nosce te ipsum. Si tratta di una serie di acquisizioni da parte del cliente, necessarie per sviluppare un efficace pratica terapeutica. Ellis, nel suo testo Autoterapia Razionale Emotiva, indica 12 diversi insight:
Quando i vostri obiettivi e desideri sono frustrati voi create sentimenti sia appropriati sia inappropriati
Siete soprattutto (anche se non del tutto) voi a creare i vostri pensieri e le vostre emozioni disturbate: e di conseguenza siete voi ad avere il potere di controllarli e modificarli. A condizione però che accettiate questa intuizione e vi sforziate di metterla in pratica
Voi vi rendete inutilmente e nevroticamente infelici a causa della vostra adesione a convinzioni assolute e irrazionali, e, soprattutto, a causa della vostra convinta accettazione di doverizzazioni incondizionate
Le cause originarie dei vostri disturbi emozionali non vanno cercate nelle esperienze della vostra prima infanzia o nei condizionamenti esercitati dal passato: vanno ricercate in voi stessi
Siate consapevoli del fatto che sono le vostre doverizzazioni irrazionali a crearvi turbamento. La sola constatazione di avere queste doverizzazioni non vi aiuta però a farle scomparire. Cercate di combatterle nei molti modi che la Rebt vi fornisce, ma soprattutto sfidandole e mettendole continuamente in discussione
Una volta che vi siate lasciati abbattere da qualche cosa, è facile che tendiate a sentirvi depressi riguardo al vostro abbattimento. Se prestate attenzione a quel che fate, vi accorgerete che state provando ansia per la vostra ansia, depressione per la vostra depressione, e che vi sentite colpevoli per la collera che vi opprime. Possedete un vero e proprio talento per rendervi la vita difficile!
Quando tentate di risolvere i vostri problemi pratici di vita, cercate accuratamente di scoprire se avete qualche problema emozionale – come sentimenti di ansia o depressione – inerente a queste questioni pratiche. Se è così, individuate e contestate attivamente il vostro pensiero dogmatico e doverizzatore che dà vita alle vostre difficoltà emozionali. Mentre vi applicate a ridurre i vostri sentimenti nevrotici, tornate alle vostre difficoltà pratiche e affrontatele ricorrendo a un’efficace autogestione e ai metodi consueti per la soluzione di problemi.
Potete cambiare le convinzioni irrazionali agendo contro di esse: vale a dire, ponendo in essere comportamenti che le contraddicono
Non importa con quanta chiarezza vi rendiate conto che vi lasciate sconvolgere e abbattere senza ragione, se non prendete atto che sarà difficilissimo che miglioriate senza un’applicazione e un esercizio costanti – sì, un notevole lavoro e una incessante messa in pratica – con cui cercherete di cambiare attivamente le vostre convinzioni disturbanti agendo vigorosamente (e spesso con disagio) contro di esse
Se cercate di confutare con moderazione le vostre convinzioni irrazionali, può darsi che non riusciate a cambiarle. Perciò, è meglio che combattiate con forza e costanza contro di esse e per convincervi che sono false.
Può darsi che per un certo periodo vi riesca facile modificare i vostri sentimenti. Fareste meglio tuttavia ad applicarvi e applicarvi per riuscire a mantenere le acquisizioni fatte
Quando riuscite a far migliorare i vostri disturbi emozionali, sarà un miracolo se non avrete ricadute. Quando questo vi succede, ricominciate daccapo con la RET. Provate e riprovate!
Come già esposto, Mario Di Pietro, nell’edizione italiana del testo di Ellis L’Autoterapia Razionale Emotiva, illustra come le più frequenti idee irrazionali possano essere sottese al concetto di Doverizzazione. Riproponiamo, ai fini di una maggiore chiarezza espositiva, i diversi tipi di doverizzazioni così come descritti da Di Pietro:
· Doverizzazioni su se stessi
· Doverizzazioni sugli altri
· Doverizzazioni sulle condizioni di vita
Ma cosa sono le doverizzazioni? Perché sono così presenti e influenti nel nostro modo di ragionare tanto da essere fonte per noi di ansie, depressioni ecc?
La doverizzazione altro non è che la trasposizione di un principio di necessità. “Io devo agire bene” è in realtà “E’ necessario che io agisca bene”; “Le cose devono andare in un certo modo” va letto come “è necessario che le cose vadano in un certo modo”. Non è una specificazione da poco. Le idee irrazionali trovano linfa e si stratificano nel nostro sistema di convinzioni proprio perché prendono la forma di assiomi. Tutte le nostre convinzioni si fondano su assiomi, da cui derivano corollari di varia natura. Quello che ci interessa stabilire è che le idee irrazionali si manifestano e traggono la loro forza persuasiva dall’essere assimilate come leggi, in particolare leggi di necessità.
In logica si parla di implicazione materiale. Ovvero, la forma: se…allora…( Se piove, allora la terra si bagnerà)
Anche le nostre doverizzazioni irrazionali hanno questa struttura. Se x allora y. Pur e non esplicitamente presente nella verbalizzazione, le doverizzazioni hanno un loro fondamento, la giustificazione razionale per cui da essa, per implicazione materiale, si perviene a y, ovvero la doverizzazione.
Le doverizzazioni possono dunque essere spiegate come delle implicazioni materiali infondate, o meglio fondate su un elemento di volontà. La doverizzazione “Le cose devono andare come io pretendo che siano” è dunque:”siccome pretendo che le cose vadano in un certo modo, allora devono andare proprio in quel modo”. Ancora più precisamente, nell’assumere forma assiomatica:”se io voglio che le cose vadano in un certo modo, allora devono andare in quel modo”.
Proponiamo in forma logica l’espressione:
«Le cose che mi succedono devono essere proprio come io pretendo che siano e tutto deve essere facile e gradevole, altrimenti la vita è insopportabile».
Riformulata in:
«Se voglio/desidero che le cose vadano in un certo modo, allora devono andare in quel modo, altrimenti la vita è insopportabile»
L’ultima espressione (“la vita è insopportabile”) rappresenta un altro errore nel trasformare un proprio vissuto in un assioma. Ma andiamo a simbolizzare:
CNCpqr
Nella simbologia di Ukasievick.
Ovvero:”Se non si da il caso che p implichi q, allora r”
Dove: p=voglio che le cose vadano in un certo modo; q=le cose vanno in un certo modo; r=la vita è insopportabile
Lo formula è corretta da un punto di vista logico. Dando per buono che r sia davvero una conseguenza necessaria del fatto che p non implichi q, allora il risultato sarà sempre e inevitabilmente r, poiché p non implica mai q.
La pretesa di far derivare qualcosa che riguardi il mondo esterno (ma anche noi stessi!) dalla nostra semplice volontà, dal nostro desiderio, è un modo di pensare puerile in senso stretto, poiché riproduce l’attitudine dei bambini a considerare il mondo esterno come un prolungamento della propria volontà. Le frustrazioni a cui vanno incontro negli anni servono a formare il principio di realtà.
Dunque, riassumendo, questa tipologia di verbalizzazione irrazionale (doverizzazione) è un ragionamento della forma dell’implicazione materiale, per cui un desiderio dovrebbe comportare una condizione oggettiva, pena uno stato di malessere.
Questa analisi non vuole aggiungere molto, dal punto di vista prettamente terapeutico, a quanto già ampiamente illustrato da Albert Ellis e dal suo rappresentante in Italia Cesare de Silvestri[5]. Tuttavia il metodo della Rebt prevede come elemento terapeutico l’acquisizione da parte del paziente di una serie di insight, utili a padroneggiare il sistema noto come A-B-C e ad essere dunque terapeuti di se stessi. Una riflessione sulla natura delle idee/verbalizzazioni irrazionali può essere utile ai fini di una maggiore consapevolezza di esse, che poi è il primo passo per il loro superamento. Questo avviene attraverso una riformulazione dell’idea in una forma razionale, e una serie di tecniche di comportamento che servono ad “insegnare” a noi stessi questa nuova verità. Il modo in cui riformulare le varie doverizzazioni è stato ampiamente ed esaurientemente esposto da Ellis.
Ovviamente i desideri non possono mai essere legati alla loro realizzazione mediante un rapporto di causa-effetto, un legame “necessario”. Anche considerare il malessere come conseguenza inevitabile, “necessaria” della mancata realizzazione del proprio desiderio, è un atto arbitrario, che nulla ha a che fare con la logica. Convincendosi di questo, si può cominciare a lavorare per sostituire la verbalizzazione irrazionale.
“Se non riuscirò a superare brillantemente l’esame, avrò dimostrato di essere un buono a nulla, e per me ciò sarà insopportabile”
Significa in realtà:
“Siccome non voglio passare per un buono a nulla, devo superare brillantemente l’esame. Se non vi riuscirò, non potrò sopportarlo”
Formulata correttamente è:
“Siccome non voglio passare per un buono a nulla, desidero superare brillantemente l’esame. Se non vi riuscirò, sarà molto dura”
Sono intervenuto sulla verbalizzazione in due modi diversi; nel primo caso, ho sostituito la doverizzazione con un atto di volontà, e non più di necessità oggettiva. Nel secondo caso, la forma di “implicazione materiale” è intatta, ma è il suo contenuto ad essere modificato. Non è vero infatti che sarà insopportabile, ma solo molto duro da sopportare.
E’ inoltre possibile affrontare il problema anche da un altro punto di vista, ovvero individuando il marco-problema che ne è alla base. Abbiamo individuato una caratteristica comune nelle doverizzazioni che hanno come presupposto desideri o aspettative personali, ovvero l’incongruità logica. Un’incongruità in virtù della quale vengono elaborate delle inferenze per cui dalla propria volontà dovrebbero scaturire come conseguenze logiche gli effetti desiderati. Abbiamo constatato la puerilità di questo genere di implicazioni materiali; il macro-problema può dunque essere individuato come pensiero infantile. Accanto al lavoro sulle singole verbalizzazione irrazionali, è dunque ipotizzabile un lavoro terapeutico che intervenga direttamente su questo aspetto, terreno di coltura di pensieri illogici e autodistruttivi. Lavorare dunque sull’origine stessa delle nostre verbalizzazione irrazionali, acquisendo un ulteriore insight, ovvero la consapevolezza della nostra attitudine al pensiero puerile.
Quello che io considero il secondo tipo di verbalizzazione irrazionale è quella forma di implicazione in cui a fondamento non vi è più una ragione individuale, ma trascendente, ovvero che va oltre l’individuo stesso. Si tratta delle proposizioni di natura etica, religiosa, metafisica.
“E’ giusto essere sempre corretti con gli altri; se non mi comporto correttamente, allora sono una persona indegna”.
Come si interviene in questo genere di verbalizzazioni? La forma logica è del tutto corretta, come nel primo caso, se si accetta la premessa. Ma mentre nel primo tipo di doverizzazione è molto facile mettere in discussione il fatto che le premesse (desideri) debbano portare a stati di cose oggettivi, in questo secondo caso è molto più complesso. Questo perché le proposizioni di questo tipo, se ammesse, determinano per definizione le proprie conseguenze. Si tratta dunque di mettere in discussione la natura stessa delle convinzioni metafisiche del soggetto. Ma come è possibile? La ricetta di Ellis in questo caso sembra un po’ sbrigativa. Convincersi che una convinzione morale sia dannosa per sé non implica infatti il fatto di doversene separare. Un cattolico convinto che ritenga di dover praticare l’astinenza, pur di fronte alla verità del suo soffrire per questa privazione, non muterà il suo atteggiamento. Questo proprio in virtù della natura delle proposizioni metafisiche, che trascendono l’individuo e dunque anche le sue ragioni.
Se la ricetta di Ellis non è del tutto convincente, tuttavia, è davvero difficile offrire in questo senso dei suggerimenti. Attraverso un buon disputing è possibile aiutare il cliente a prendere più consapevolezza delle sue stesse convinzioni di quanta ne avesse prima di metterle in discussione. Detto questo, se il cliente vuole restare attaccato alla sua metafisica, non è possibile intervenire. Aderire ad un principio trascendente è infatti un atto di volontà, e può essere sostituito soltanto da un altro atto di volontà. Paradossalmente, è così: errore diffuso è credere di poter smontare grandi fedi o ideali con argomenti razionali. Ovvero armi del tutto inutili per combattere una scelta, una volontà. Questo è un insight per i terapeuti:”aderire a fedi, ideali o principi che non hanno un fondamento razionale, è un atto di volontà, e può essere sostituito soltanto da un altro atto di volontà”.
E tuttavia, nel momento in cui un cliente si reca da un terapeuta, a causa di un malessere conseguenza della sua filosofia di vita, ha già compiuto un atto di volontà.
Il primo passo dunque è sostenere la riflessione del cliente, rendendo auto-evidente la causalità che lega le sue convinzioni ai sintomi in esame. Potrebbe tuttavia essere anche l’ultimo passo, poiché per il terapeuta si pone anche una problematica di natura etica: è giusto intervenire sulle convinzioni morali/ideologiche del paziente? Non si può eludere il problema imputando semplicemente la responsabilità al cliente che, chiedendo de facto un aiuto al terapeuta, lo ha in qualche modo legittimato a intervenire sulle cause dei suoi disagi. E’ altresì vero che, se solo un atto di volontà può sostituirne un altro, il terapista non può in effetti essere artefice di un simile cambiamento nel suo utente, ma sarà sempre quest’ultimo che, individuando col supporto della terapia la causa del proprio patire, decide di intervenire.
E’ una questione complessa, che tuttavia non è possibile eludere. Personalmente ritengo che, in questo genere di problematiche, l’intervento terapeutico possa e debba esaurirsi nel disputing, nell’accompagnamento del cliente nell’esplorazione dei propri vissuti cognitivi ed emotivi. Si può anche sostenerne la volontà, ma non indirizzarla o, peggio ancora, forzarla. Esiste il diritto alla scelta e, verosimilmente, anche alla scelta di star male.
La Rebt consiste in corpo teorico e una serie di tecniche di notevole efficacia terapeutica. Non è tuttavia un sistema filosofico, essendo fondamentalmente avulsa da elementi valoriali. Non può dunque sostituire i suoi assiomi a quelli di una dottrina morale o ideologica. In questo senso, come la logica, è formale.
Scienze del Pensiero e del Comportamento, 2007
[1] Ellis A., Ragione ed Emozione in Psicoterapia, a cura di C. De Silvestri, Astrolabio Ubaldini, 1989
[2] Ellis A., L’autoterapia razionale emotiva, a cura di M. Di Pietro, Centro Studi Erickson, 1993
[3] Epitteto, Manuale
[4] Achenbach Gerd B., La consulenza filosofica, Apogeo, 2004
[5] De Silvestri C., I fondamenti teorici e clinici della terapia razionale emotiva, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1981
1. L’importanza delle verbalizzazioni, ovvero di ciò che diciamo a noi stessi, ai fini della nostra condotta di vita e della nostra stessa felicità
Ellis sostiene che qualunque evento negativo abbia caratterizzato, o addirittura traumatizzato la nostra vita, se continua a tormentarci anche quando l’evento si è consumato, è in virtù di una nostra verbalizzazione interiore. Attraverso questa verbalizzazione, noi consentiamo all’evento negativo di continuare a produrre i suoi effetti nefasti sulla nostra personalità. Proviamo a portare un esempio:
Luigi è un bambino di 13 anni, e frequenta la terza media. E’ sempre stato uno dei primi della classe, sin dalle elementari. Tuttavia, quel giorno l’insegnante di matematica ha deciso di fare un compito in classe a sorpresa. Luigi non è preparato e rischia di prendere il suo primo brutto voto, proprio l’anno in cui ci sono gli esami di terza media. La sua compagna di banco Sara, invece, sembra molto spedita nello svolgere le complesse operazioni algebriche. Luigi decide che la cosa migliore da fare, al momento, è cercare di copiare. Ma non essendo pratico, viene facilmente scoperto dalla professoressa. Questa strappa il compito dalle sue mani, obbligandolo in questo modo a consegnare praticamente in bianco. Inoltre, l’insegnante non manca di esprimergli tutta la sua delusione e il suo sdegno, davanti a tutta la classe. Luigi trova la situazione insopportabile, non ha il coraggio di alzare lo sguardo dal banco per non incontrare gli occhi della professoressa e dei suoi compagni. L’evento è per lui talmente significativo, che ne porterà i segni fino in età adulta, sotto forma di una certa insicurezza o disagio quando è a rischio di disapprovazione.
Cosa è successo a Luigi? L’emozione da cui è stato travolto quel giorno in classe è vergogna, imbarazzo, più semplicemente paura, timore di scontrarsi con la disapprovazione degli altri. Ma cosa ha permesso a questo malessere di continuare ad essere presente nella vita di Luigi, al punto di condizionarlo anche in età adulta? Secondo i principi della Rebt, la causa è da cercare in ciò che Luigi ha detto a se stesso in quel momento, strutturando il pensiero nella forma di una massima e inserendola nella propria filosofia di vita.
Probabilmente Luigi nel momento della vergogna si è parlato in questo modo:”tutti mi stanno disapprovando; è una sensazione orribile, insopportabile, e non voglio doverla provare mai più!”. Quando ci accade un evento spiacevole, se lo “registriamo” in maniera irrazionale, è come se contraessimo una malattia. Per fortuna è tutt’altro che impossibile guarirne. Luigi ha contratto questo morbo, poiché ogni qualvolta si trova a dover affrontare una disapprovazione, vive la cosa come “orribile e insopportabile”; ma, peggio ancora, è preda di notevoli ansie quando semplicemente rischia la disapprovazione, diventando così inibito e insicuro.
Per riconoscere le nostre verbalizzazioni negative, è particolarmente efficace lo schema A-B-C, introdotto sempre da Ellis. A sta ad indicare l’evento attivante, C il sintomo, l’effetto. B è l’elemento che congiunge A e C, ovvero la verbalizzazione. Lasciamo in pace Luigi e facciamo un altro esempio:
Antonello ha un’avventura con Elisabetta, una bella ragazza che frequenta la sua stessa comitiva. Le cose però non vanno bene, poiché quella sera Antonello, forse perché particolarmente stanco o emozionato, non riesce ad avere un’erezione. Antonello è turbato, ma sa che si tratta di un episodio isolato, per cui non fa drammi e decide di uscire ancora con Elisabetta. Ma Elisabetta si confida con le amiche, che maliziosamente fanno arrivare la voce ai ragazzi. Antonello diventa così oggetto di doppi sensi e allusioni; lui si mostra sicuro e sta allo scherzo, ma in realtà è disperato, al punto di arrivare a pensare al suicidio.
Questo piccolo racconto ci offre lo spunto per evidenziare, attraverso lo schema A-B-C, un esempio di verbalizzazione irrazionale e uno di verbalizzazione razionale. Nel primo caso:
A: evento attivante = prese in giro degli amici sulla sua scarsa virilità
C: sintomo = disperazione, desiderio di farla finita
Bi: verbalizzazione irrazionale = “i miei amici mi considerano un impotente; questa è una cosa assolutamente insopportabile, non è possibile vivere in questo modo!”
Bi rappresenta dunque la verbalizzazione irrazionale. L’importanza che Antonello dà all’opinione dei propri amici, almeno riguardo il tema mascolinità, è tale da far si che l’evento A possa provocare C. Per molte altre persone, A non avrebbe potuto mai provocare C. Ma andiamo avanti, perché come ho detto il racconto precedente offre ad Antonello l’opportunità di mostrare anche una forma di pensiero più razionale:
A: evento attivante = Defaiance con Elisabetta
C: sintomo = dispiacere, leggero turbamento
Br: verbalizzazione razionale = il fatto che abbia avuto un problema con Elisabetta, non fa di me un impotente. Uscendo ancora con lei, sarà evidente che si è trattato di un episodio isolato.
In questo secondo caso, Antonello si mostra molto razionale ed equilibrato; infatti il sintomo è quello appropriato, ovvero un normale dispiacere. La ragione per cui in un caso Antonello riesce ad essere così razionale, e in un altro invece esattamente l’opposto, è probabilmente da cercare nell’importanza che egli conferisce all’opinione degli amici, e quindi in un’ulteriore verbalizzazione.
Mario Di Pietro nell’edizione italiana del testo di Ellis L’Autoterapia Razionale Emotiva[2], evidenzia come le più frequenti idee irrazionali possano essere sottese al concetto di Doverizzazione. Di Pietro sintetizza così:
Doverizzazioni su se stessi («Io devo agire bene ed essere approvato da tutte le persone per me significative, altrimenti sono un assoluto incapace ed è terribile»).
Doverizzazioni sugli altri («Gli altri devono trattarmi bene e agire come io penso che debbano assolutamente agire, altrimenti sono delle carogne, dei mascalzoni e meritano di pagarla»).
Doverizzazioni sulle condizioni di vita («Le cose che mi succedono devono essere proprio come io pretendo che siano e tutto deve essere facile e gradevole, altrimenti la vita è insopportabile»).
Il modo di lavorare sulle verbalizzazioni sarà illustrato al punto 2. Prima però vorrei sottolineare un altro aspetto importante della Rebt che si può evincere dal punto 1. L’importanza che questa disciplina attribuisce al pensiero e alla riflessione filosofica. Già nei suoi presupposti fondamentali infatti la Rebt rimanda al pensiero dello stoico Epitteto, per cui non sono le cose in sé ad essere dannose o proficue per noi, ma il modo in cui le percepiamo[3]. Al di là del merito, è notevole il ruolo che la riflessione filosofica assume non soltanto nel corpo teorico, ma nella stessa pratica terapeutica della Rebt. E’ interessante in questo senso evidenziare l’attenzione di cui è stata oggetto la riflessione filosofica nelle ultime decadi all’interno del dibattito terapeutico. In particolare vogliamo riferirci al counselling filosofico e alla cultura dell’intervento non prettamente-curativo che, a partire dalla riflessione di Achenbach[4], ha assunto proporzioni interessanti anche in Italia, in special modo per il lavoro e l’opera di Umberto Galimberti.
Il counselling (o counseling) filosofico è una relazione d’aiuto in cui, attraverso gli strumenti del dibattito filosofico, attivando le risorse del consultante stesso, si propone di facilitare e stimolare i processi riflessivi e di chiarificazione. La definizione è necessariamente generica e suscettibile di diversa declinazione, a seconda della scuola di pensiero cui afferisce. Tuttavia, nucleo centrale è la problematizzazione, piuttosto che risoluzione, dei propri vissuti emotivi e cognitivi.
Il corpo dottrinale della Rebt fornisce al counsellor filosofico una serie di tecniche e strumenti culturali di indubbia efficacia terapeutica, e sarebbe utile ed interessante, ad avviso di chi scrive, l’apertura di una riflessione su questo tema.
Chiusa questa parentesi, presentiamo il punto 2, ovvero il secondo elemento di particolare interesse nella Rebt:
2. L’importanza data al ruolo del “cliente” nel processo terapeutico.
Naturalmente non esiste metodo terapeutico che possa prescindere dal paziente; nella Rebt, però, il ruolo del cliente è assolutamente attivo. Anzi, in ultima analisi la Rebt è un metodo che, una volta appresi i suoi concetti fondamentali, può anche essere riproposto autonomamente in diverse situazioni. Questo non vuole assolutamente dire che si possa prescindere dalla figura del terapeuta, ma soltanto sottolineare il notevole protagonismo del cliente in un intervento di Rebt.
In pratica, il metodo della Rebt può essere così illustrato:
· Acquisizione di una serie di insight da parte del cliente
· Ricerca delle verbalizzazione irrazionali attraverso il sistema A-B-C e riformulazione razionale attraverso il disputing
· Esercizi di natura “comportamentale” per insegnarci quanto appreso attraverso il disputing e la discussione delle nostre verbalizzazioni. Questo perché la Rebt non è razionalista, e dunque non sostiene l’autosufficienza della ragione nel produrre un cambiamento, bensì la necessità di pratiche ed esercitazioni costanti
L’insight indica una consapevolezza, un nosce te ipsum. Si tratta di una serie di acquisizioni da parte del cliente, necessarie per sviluppare un efficace pratica terapeutica. Ellis, nel suo testo Autoterapia Razionale Emotiva, indica 12 diversi insight:
Quando i vostri obiettivi e desideri sono frustrati voi create sentimenti sia appropriati sia inappropriati
Siete soprattutto (anche se non del tutto) voi a creare i vostri pensieri e le vostre emozioni disturbate: e di conseguenza siete voi ad avere il potere di controllarli e modificarli. A condizione però che accettiate questa intuizione e vi sforziate di metterla in pratica
Voi vi rendete inutilmente e nevroticamente infelici a causa della vostra adesione a convinzioni assolute e irrazionali, e, soprattutto, a causa della vostra convinta accettazione di doverizzazioni incondizionate
Le cause originarie dei vostri disturbi emozionali non vanno cercate nelle esperienze della vostra prima infanzia o nei condizionamenti esercitati dal passato: vanno ricercate in voi stessi
Siate consapevoli del fatto che sono le vostre doverizzazioni irrazionali a crearvi turbamento. La sola constatazione di avere queste doverizzazioni non vi aiuta però a farle scomparire. Cercate di combatterle nei molti modi che la Rebt vi fornisce, ma soprattutto sfidandole e mettendole continuamente in discussione
Una volta che vi siate lasciati abbattere da qualche cosa, è facile che tendiate a sentirvi depressi riguardo al vostro abbattimento. Se prestate attenzione a quel che fate, vi accorgerete che state provando ansia per la vostra ansia, depressione per la vostra depressione, e che vi sentite colpevoli per la collera che vi opprime. Possedete un vero e proprio talento per rendervi la vita difficile!
Quando tentate di risolvere i vostri problemi pratici di vita, cercate accuratamente di scoprire se avete qualche problema emozionale – come sentimenti di ansia o depressione – inerente a queste questioni pratiche. Se è così, individuate e contestate attivamente il vostro pensiero dogmatico e doverizzatore che dà vita alle vostre difficoltà emozionali. Mentre vi applicate a ridurre i vostri sentimenti nevrotici, tornate alle vostre difficoltà pratiche e affrontatele ricorrendo a un’efficace autogestione e ai metodi consueti per la soluzione di problemi.
Potete cambiare le convinzioni irrazionali agendo contro di esse: vale a dire, ponendo in essere comportamenti che le contraddicono
Non importa con quanta chiarezza vi rendiate conto che vi lasciate sconvolgere e abbattere senza ragione, se non prendete atto che sarà difficilissimo che miglioriate senza un’applicazione e un esercizio costanti – sì, un notevole lavoro e una incessante messa in pratica – con cui cercherete di cambiare attivamente le vostre convinzioni disturbanti agendo vigorosamente (e spesso con disagio) contro di esse
Se cercate di confutare con moderazione le vostre convinzioni irrazionali, può darsi che non riusciate a cambiarle. Perciò, è meglio che combattiate con forza e costanza contro di esse e per convincervi che sono false.
Può darsi che per un certo periodo vi riesca facile modificare i vostri sentimenti. Fareste meglio tuttavia ad applicarvi e applicarvi per riuscire a mantenere le acquisizioni fatte
Quando riuscite a far migliorare i vostri disturbi emozionali, sarà un miracolo se non avrete ricadute. Quando questo vi succede, ricominciate daccapo con la RET. Provate e riprovate!
Come già esposto, Mario Di Pietro, nell’edizione italiana del testo di Ellis L’Autoterapia Razionale Emotiva, illustra come le più frequenti idee irrazionali possano essere sottese al concetto di Doverizzazione. Riproponiamo, ai fini di una maggiore chiarezza espositiva, i diversi tipi di doverizzazioni così come descritti da Di Pietro:
· Doverizzazioni su se stessi
· Doverizzazioni sugli altri
· Doverizzazioni sulle condizioni di vita
Ma cosa sono le doverizzazioni? Perché sono così presenti e influenti nel nostro modo di ragionare tanto da essere fonte per noi di ansie, depressioni ecc?
La doverizzazione altro non è che la trasposizione di un principio di necessità. “Io devo agire bene” è in realtà “E’ necessario che io agisca bene”; “Le cose devono andare in un certo modo” va letto come “è necessario che le cose vadano in un certo modo”. Non è una specificazione da poco. Le idee irrazionali trovano linfa e si stratificano nel nostro sistema di convinzioni proprio perché prendono la forma di assiomi. Tutte le nostre convinzioni si fondano su assiomi, da cui derivano corollari di varia natura. Quello che ci interessa stabilire è che le idee irrazionali si manifestano e traggono la loro forza persuasiva dall’essere assimilate come leggi, in particolare leggi di necessità.
In logica si parla di implicazione materiale. Ovvero, la forma: se…allora…( Se piove, allora la terra si bagnerà)
Anche le nostre doverizzazioni irrazionali hanno questa struttura. Se x allora y. Pur e non esplicitamente presente nella verbalizzazione, le doverizzazioni hanno un loro fondamento, la giustificazione razionale per cui da essa, per implicazione materiale, si perviene a y, ovvero la doverizzazione.
Le doverizzazioni possono dunque essere spiegate come delle implicazioni materiali infondate, o meglio fondate su un elemento di volontà. La doverizzazione “Le cose devono andare come io pretendo che siano” è dunque:”siccome pretendo che le cose vadano in un certo modo, allora devono andare proprio in quel modo”. Ancora più precisamente, nell’assumere forma assiomatica:”se io voglio che le cose vadano in un certo modo, allora devono andare in quel modo”.
Proponiamo in forma logica l’espressione:
«Le cose che mi succedono devono essere proprio come io pretendo che siano e tutto deve essere facile e gradevole, altrimenti la vita è insopportabile».
Riformulata in:
«Se voglio/desidero che le cose vadano in un certo modo, allora devono andare in quel modo, altrimenti la vita è insopportabile»
L’ultima espressione (“la vita è insopportabile”) rappresenta un altro errore nel trasformare un proprio vissuto in un assioma. Ma andiamo a simbolizzare:
CNCpqr
Nella simbologia di Ukasievick.
Ovvero:”Se non si da il caso che p implichi q, allora r”
Dove: p=voglio che le cose vadano in un certo modo; q=le cose vanno in un certo modo; r=la vita è insopportabile
Lo formula è corretta da un punto di vista logico. Dando per buono che r sia davvero una conseguenza necessaria del fatto che p non implichi q, allora il risultato sarà sempre e inevitabilmente r, poiché p non implica mai q.
La pretesa di far derivare qualcosa che riguardi il mondo esterno (ma anche noi stessi!) dalla nostra semplice volontà, dal nostro desiderio, è un modo di pensare puerile in senso stretto, poiché riproduce l’attitudine dei bambini a considerare il mondo esterno come un prolungamento della propria volontà. Le frustrazioni a cui vanno incontro negli anni servono a formare il principio di realtà.
Dunque, riassumendo, questa tipologia di verbalizzazione irrazionale (doverizzazione) è un ragionamento della forma dell’implicazione materiale, per cui un desiderio dovrebbe comportare una condizione oggettiva, pena uno stato di malessere.
Questa analisi non vuole aggiungere molto, dal punto di vista prettamente terapeutico, a quanto già ampiamente illustrato da Albert Ellis e dal suo rappresentante in Italia Cesare de Silvestri[5]. Tuttavia il metodo della Rebt prevede come elemento terapeutico l’acquisizione da parte del paziente di una serie di insight, utili a padroneggiare il sistema noto come A-B-C e ad essere dunque terapeuti di se stessi. Una riflessione sulla natura delle idee/verbalizzazioni irrazionali può essere utile ai fini di una maggiore consapevolezza di esse, che poi è il primo passo per il loro superamento. Questo avviene attraverso una riformulazione dell’idea in una forma razionale, e una serie di tecniche di comportamento che servono ad “insegnare” a noi stessi questa nuova verità. Il modo in cui riformulare le varie doverizzazioni è stato ampiamente ed esaurientemente esposto da Ellis.
Ovviamente i desideri non possono mai essere legati alla loro realizzazione mediante un rapporto di causa-effetto, un legame “necessario”. Anche considerare il malessere come conseguenza inevitabile, “necessaria” della mancata realizzazione del proprio desiderio, è un atto arbitrario, che nulla ha a che fare con la logica. Convincendosi di questo, si può cominciare a lavorare per sostituire la verbalizzazione irrazionale.
“Se non riuscirò a superare brillantemente l’esame, avrò dimostrato di essere un buono a nulla, e per me ciò sarà insopportabile”
Significa in realtà:
“Siccome non voglio passare per un buono a nulla, devo superare brillantemente l’esame. Se non vi riuscirò, non potrò sopportarlo”
Formulata correttamente è:
“Siccome non voglio passare per un buono a nulla, desidero superare brillantemente l’esame. Se non vi riuscirò, sarà molto dura”
Sono intervenuto sulla verbalizzazione in due modi diversi; nel primo caso, ho sostituito la doverizzazione con un atto di volontà, e non più di necessità oggettiva. Nel secondo caso, la forma di “implicazione materiale” è intatta, ma è il suo contenuto ad essere modificato. Non è vero infatti che sarà insopportabile, ma solo molto duro da sopportare.
E’ inoltre possibile affrontare il problema anche da un altro punto di vista, ovvero individuando il marco-problema che ne è alla base. Abbiamo individuato una caratteristica comune nelle doverizzazioni che hanno come presupposto desideri o aspettative personali, ovvero l’incongruità logica. Un’incongruità in virtù della quale vengono elaborate delle inferenze per cui dalla propria volontà dovrebbero scaturire come conseguenze logiche gli effetti desiderati. Abbiamo constatato la puerilità di questo genere di implicazioni materiali; il macro-problema può dunque essere individuato come pensiero infantile. Accanto al lavoro sulle singole verbalizzazione irrazionali, è dunque ipotizzabile un lavoro terapeutico che intervenga direttamente su questo aspetto, terreno di coltura di pensieri illogici e autodistruttivi. Lavorare dunque sull’origine stessa delle nostre verbalizzazione irrazionali, acquisendo un ulteriore insight, ovvero la consapevolezza della nostra attitudine al pensiero puerile.
Quello che io considero il secondo tipo di verbalizzazione irrazionale è quella forma di implicazione in cui a fondamento non vi è più una ragione individuale, ma trascendente, ovvero che va oltre l’individuo stesso. Si tratta delle proposizioni di natura etica, religiosa, metafisica.
“E’ giusto essere sempre corretti con gli altri; se non mi comporto correttamente, allora sono una persona indegna”.
Come si interviene in questo genere di verbalizzazioni? La forma logica è del tutto corretta, come nel primo caso, se si accetta la premessa. Ma mentre nel primo tipo di doverizzazione è molto facile mettere in discussione il fatto che le premesse (desideri) debbano portare a stati di cose oggettivi, in questo secondo caso è molto più complesso. Questo perché le proposizioni di questo tipo, se ammesse, determinano per definizione le proprie conseguenze. Si tratta dunque di mettere in discussione la natura stessa delle convinzioni metafisiche del soggetto. Ma come è possibile? La ricetta di Ellis in questo caso sembra un po’ sbrigativa. Convincersi che una convinzione morale sia dannosa per sé non implica infatti il fatto di doversene separare. Un cattolico convinto che ritenga di dover praticare l’astinenza, pur di fronte alla verità del suo soffrire per questa privazione, non muterà il suo atteggiamento. Questo proprio in virtù della natura delle proposizioni metafisiche, che trascendono l’individuo e dunque anche le sue ragioni.
Se la ricetta di Ellis non è del tutto convincente, tuttavia, è davvero difficile offrire in questo senso dei suggerimenti. Attraverso un buon disputing è possibile aiutare il cliente a prendere più consapevolezza delle sue stesse convinzioni di quanta ne avesse prima di metterle in discussione. Detto questo, se il cliente vuole restare attaccato alla sua metafisica, non è possibile intervenire. Aderire ad un principio trascendente è infatti un atto di volontà, e può essere sostituito soltanto da un altro atto di volontà. Paradossalmente, è così: errore diffuso è credere di poter smontare grandi fedi o ideali con argomenti razionali. Ovvero armi del tutto inutili per combattere una scelta, una volontà. Questo è un insight per i terapeuti:”aderire a fedi, ideali o principi che non hanno un fondamento razionale, è un atto di volontà, e può essere sostituito soltanto da un altro atto di volontà”.
E tuttavia, nel momento in cui un cliente si reca da un terapeuta, a causa di un malessere conseguenza della sua filosofia di vita, ha già compiuto un atto di volontà.
Il primo passo dunque è sostenere la riflessione del cliente, rendendo auto-evidente la causalità che lega le sue convinzioni ai sintomi in esame. Potrebbe tuttavia essere anche l’ultimo passo, poiché per il terapeuta si pone anche una problematica di natura etica: è giusto intervenire sulle convinzioni morali/ideologiche del paziente? Non si può eludere il problema imputando semplicemente la responsabilità al cliente che, chiedendo de facto un aiuto al terapeuta, lo ha in qualche modo legittimato a intervenire sulle cause dei suoi disagi. E’ altresì vero che, se solo un atto di volontà può sostituirne un altro, il terapista non può in effetti essere artefice di un simile cambiamento nel suo utente, ma sarà sempre quest’ultimo che, individuando col supporto della terapia la causa del proprio patire, decide di intervenire.
E’ una questione complessa, che tuttavia non è possibile eludere. Personalmente ritengo che, in questo genere di problematiche, l’intervento terapeutico possa e debba esaurirsi nel disputing, nell’accompagnamento del cliente nell’esplorazione dei propri vissuti cognitivi ed emotivi. Si può anche sostenerne la volontà, ma non indirizzarla o, peggio ancora, forzarla. Esiste il diritto alla scelta e, verosimilmente, anche alla scelta di star male.
La Rebt consiste in corpo teorico e una serie di tecniche di notevole efficacia terapeutica. Non è tuttavia un sistema filosofico, essendo fondamentalmente avulsa da elementi valoriali. Non può dunque sostituire i suoi assiomi a quelli di una dottrina morale o ideologica. In questo senso, come la logica, è formale.
Scienze del Pensiero e del Comportamento, 2007
[1] Ellis A., Ragione ed Emozione in Psicoterapia, a cura di C. De Silvestri, Astrolabio Ubaldini, 1989
[2] Ellis A., L’autoterapia razionale emotiva, a cura di M. Di Pietro, Centro Studi Erickson, 1993
[3] Epitteto, Manuale
[4] Achenbach Gerd B., La consulenza filosofica, Apogeo, 2004
[5] De Silvestri C., I fondamenti teorici e clinici della terapia razionale emotiva, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1981
lunedì 13 agosto 2007
Il Colloquio
Le undici del mattino e già morivo dal caldo; erano i primi giorni di settembre, di un settembre terribilmente afoso, ed ero in giro già dalle otto passando da un ufficio all’altro del Centro Direzionale di Napoli per consegnare Curricula. Quella giornata l’avevo dedicata in gran parte alle agenzie di lavoro interinale, nella speranza che a qualche azienda potesse interessare un laureato in filosofia con esperienza nel sociale. Ad ogni curriculum consegnato, dovevo affrontare un colloquio con qualche selezionatore del personale. Ad ogni modo, i primi tre, dopo aver attentamente valutato il mio curriculum vitae, lo avevano cestinato, mentre il quarto, dopo il solito esame, aveva cercato di cestinare me.
Era dunque con lo spirito afflitto dalla delusione e con i boxer che mi segavano l’inguine che mi apprestavo a sostenere l’ennesimo colloquio. Lessi ancora il nome dell’agenzia sulla lista che mi ero preparato la sera precedente: “Agenzia superyoung dynamic wonderful work: cerchiamo giovani dinamici, freschi, motivati per un lavoro agile e comodo. Corso di formazione, assunzione garantita, ottimi guadagni”. Qualcosa mi diceva che sarebbe stato un altro buco nell’acqua. Ad ogni modo, pensai, dovevo mostrarmi positivo, e cominciai a ripassare mentalmente tutte le tattiche che avevo imparato per impressionare i selezionatori. Armato di buona volontà e di un affilato pugnale per suicidarmi in caso di un ulteriore fallimento, varcai la soglia dell’ennesimo grattacielo, spinsi il dito sul pulsante dell’ascensore e raggiunsi il dodicesimo piano. Trovai la sede dell’agenzia e bussai con disinvoltura al campanello; una bruna tutta curve con un’abbronzatura perfetta mi aprì elargendomi un sorriso suadente e allungando la mano per salutarmi; strinsi energicamente la mano che mi veniva offerta ricordando che per non fare la figura del rammollito era necessario far sentire il proprio vigore anche attraverso quel semplice saluto. Quando lei emise un piccolo gemito di dolore mi resi conto che stavo esagerando e lasciai la presa; «mi scusi», mi giustificai, con un sorriso appena abbozzato da duro che non riesce a trattenere la propria incontenibile energia, ma dicendo la parola “scusi” lasciai partire un proiettile di saliva che si schiantò violentemente sul suo zigomo sinistro; facemmo entrambi finta di nulla, e mi fece accomodare in una piccola stanzetta che sembrava la sala d’attesa di un dentista. Cominciai a sfogliare distrattamente un’interessantissima rivista dove intervistavano alcuni giovani che “ce l’avevano fatta!” mentre posavano facendo il gesto di Fonzie, quando fui chiamato dalla signorina di prima che nel frattempo si era asciugata la guancia:«prego», disse, e mi indicò una porta alle sue spalle; dietro una scrivania, impegnato a sfogliare il curriculum che avevo consegnato alla segretaria, c’era un giovane più o meno della mia età, elegantemente vestito e con un taglio di capelli ripugnante che, non appena mi vide, si alzò e mi strinse la mano con un’energia tale che stavolta fui io a gemere di dolore; ovviamente per raggiungere una stretta del genere doveva aver passato molto tempo in palestra, oppure a stringere mani, o a masturbarsi, fatto sta che stavolta riuscii ad evitare di sputare e sorridendo come solo un giovane dinamico e vincente può fare mi sedetti di fronte a lui. Il selezionatore riprese tra le mani il mio curriculum e cominciò:«Allora Dario» - esordì, passando improvvisamente al “tu” - «come mai una laurea in filosofia?» - ormai sapevo quale risposta dare a questo tipo di domanda - «mi piacciono le sfide!» - il manichino mi guardò con soddisfazione - «vedo che hai lavorato nel terzo settore, ti piace aiutare gli altri?» - «mi piace vederli soffrire» - scherzai, ma ammiccando leggermente; il selezionatore mi lanciò un’occhiatina complice e proseguì - «parliamo di te; come ti definiresti? Polemico, accomodante, indipendente…» - «accomodante!» - risposi secco - «con tendenza all’ottusità…» - «cosa significa per te avere successo?» - continuò - «preferisci uno stipendio sicuro o un lavoro dinamico?» - «ovviamente un lavoro dinamico, lo stipendio fisso è una tale noia!» - «bene Dario» - concluse - «penso che noi due andremo molto d’accordo. Il colloquio è stato molto positivo, penso che da lunedì potremmo partire con una settimana di prova…» - sembrava fatta, ma a quel punto commisi un errore fatale; mi alzai e, al culmine della felicità, allungai la mano per ringraziarlo. Un errore imperdonabile! Avevo ormai imparato che non bisogna mai dare l’impressione di aver bisogno di un lavoro, ma di accettarlo come una prospettiva interessante; l’esperto osservatore se ne avvide subito e aggrottò la fronte:«come mai tanto entusiasmo?» - chiese - «hai forse bisogno di questo lavoro?» - «no!» - sparai subito - «per me è solo un interessante possibilità» - il manichino mi guardò sospettoso - «la tua reazione sembra confermare i miei dubbi. Ammettilo, Dario, tu hai bisogno di lavorare» - sentii che una goccia di sudore cominciava a scivolarmi lungo la fronte - «le assicuro, a me di questo lavoro non me ne frega niente!» - «tu vuoi lavorare! Vuoi i nostri soldi!» - «no! I soldi mi interessano ancora meno! Le giuro che sono venuto solo per perdere il mio tempo!» - il selezionatore non sembrava convinto - «anzi» - proseguii ormai in un bagno di sudore - «questo lavoro mi fa proprio schifo! Le giuro! Cosa devo fare per dimostrarglielo?» - «lo rifiuti!» - «Allora lo rifiuto! Non voglio questo lavoro». Il manichino sembrò tranquillizzarsi a queste parole - «forse stai dicendo la verità. Vediamo…quanto vorresti guadagnare?» - «non credo spetti al dipendente scegliere quanto guadagnare» - un lieve sorriso mi fece intuire che avevo riacquistato qualche possibilità - «bene, forse ti avevo giudicato male, sei un giovane in gamba!» - ormai ero talmente sudato che il deodorante cominciava a scivolarmi lungo la schiena. Ancora una volta, lo sguardo severo del selezionatore si posò su di me:«agitato? Come mai? Un po’ d’insicurezza? Emozionato forse?» - «chi io? Sono troppo ottuso per emozionarmi!» - «eh, no!» - rispose il dannato - «a me sembra proprio in preda ad una forte emozione» - sentivo che dovevo cavarmela in qualche modo - «forse do questa impressione» - biascicai, cercando di apparire più insulso possibile - «ma le assicuro che io non mi emoziono mai, sono quasi un vegetale!» - «un vegetale eh? Non è un po’ presuntuoso?» - «no! Cioè, forse…non lo so, ma gli amici mi chiamano “barbabietola”!» - «giuri!» - «giuro! A volte anche “sedano”» - forse esagerai un po’, perché mi accorsi dalla sua espressione che l’avevo sparata troppo grossa; per fortuna, riuscii a correggere subito il tiro:«ma i miei amici mi vogliono molto bene!». Ancora una volta sentii di aver recuperato in zona Cesarini. Mi accorsi di avere un aspetto disgustoso specchiandomi nella pozzanghera di sudore che si era formata ai miei piedi; non vedevo l’ora di andarmene, ero al limite della tensione nervosa. Ma il selezionatore doveva sospettare ancora qualcosa, perché non si decideva a lasciarmi andare; continuava a giocherellare con la penna facendola rotolare aritmicamente lungo la scrivania, pensando a una domanda risolutiva, che avrebbe chiarito definitivamente se io fossi adatto o meno a quel lavoro. Maledetto! Non dimenticherò mai quel momento; mi guardò dritto negli occhi e mi chiese con la massima serietà:«Bene Dario. Ho deciso che sei adatto allo scopo; ora abbiamo due possibilità: un posto come segretario, con un contratto a tempo indeterminato e paga sindacale, o un bel contratto di collaborazione coordinata e continuativa, con mansioni di senior - public - sensational operator, con ottime possibilità di carriera… verso cosa sei orientato?». Pensai subito all’ennesimo test, e sapevo anche cosa avrei dovuto rispondere; tuttavia, il suo sorriso rassicurante mi fece pensare che forse era una proposta autentica; e in tal caso, avrei senz’altro optato per la prima ipotesi. Ma se fosse stata una prova? A questo punto non avevo più liquidi in corpo, e cominciai a sudare sangue come in un’apparizione mariana… alla fine presi la mia decisione, rischiare il tutto per tutto: prova o meno, se c’era anche una vaga possibilità di ottenere il posto fisso, io dovevo rischiare: «sarei orientato verso il segretariato…» - «lo sapevo!» - balzò letteralmente dalla sedia - «tu hai bisogno di lavorare!» - quest’ennesima aggressione ebbe il potere di farmi saltare i nervi - «e va bene! Si! Ho bisogno di lavorare, e voglio un cazzo di stipendio!» - «Fuori!» - urlò il manichino rosso dalla rabbia - «Fuori di qui!» - la bellissima ragazza di poco prima si precipitò nella stanza digrignando i denti e mi intimò di imboccare l’uscita. Cercai di guadagnare tempo per dire altre due paroline al manichino, ma la ragazza, cercando di fermarmi, scivolò nella pozzanghera di sudore e sangue; allungai subito la mano per aiutarla, ma lei continuava a fissare quella pozza di liquido informe senza rispondere; quando finalmente si voltò verso di me, con lo sguardo furente, riuscii a biascicare appena un:«mi scusi…». E ancora una volta, mi lasciai sfuggire un proiettile di saliva che stavolta si schiantò sullo zigomo destro della ragazza…
Poco dopo, ero di nuovo in giro per il centro direzionale, un po’ più malconcio e più magro di prima, con i boxer che ormai erano penetrati nella carne, e cercando di attingere ad una nuova carica di ottimismo lessi il nome della prossima agenzia da visitare.
Era dunque con lo spirito afflitto dalla delusione e con i boxer che mi segavano l’inguine che mi apprestavo a sostenere l’ennesimo colloquio. Lessi ancora il nome dell’agenzia sulla lista che mi ero preparato la sera precedente: “Agenzia superyoung dynamic wonderful work: cerchiamo giovani dinamici, freschi, motivati per un lavoro agile e comodo. Corso di formazione, assunzione garantita, ottimi guadagni”. Qualcosa mi diceva che sarebbe stato un altro buco nell’acqua. Ad ogni modo, pensai, dovevo mostrarmi positivo, e cominciai a ripassare mentalmente tutte le tattiche che avevo imparato per impressionare i selezionatori. Armato di buona volontà e di un affilato pugnale per suicidarmi in caso di un ulteriore fallimento, varcai la soglia dell’ennesimo grattacielo, spinsi il dito sul pulsante dell’ascensore e raggiunsi il dodicesimo piano. Trovai la sede dell’agenzia e bussai con disinvoltura al campanello; una bruna tutta curve con un’abbronzatura perfetta mi aprì elargendomi un sorriso suadente e allungando la mano per salutarmi; strinsi energicamente la mano che mi veniva offerta ricordando che per non fare la figura del rammollito era necessario far sentire il proprio vigore anche attraverso quel semplice saluto. Quando lei emise un piccolo gemito di dolore mi resi conto che stavo esagerando e lasciai la presa; «mi scusi», mi giustificai, con un sorriso appena abbozzato da duro che non riesce a trattenere la propria incontenibile energia, ma dicendo la parola “scusi” lasciai partire un proiettile di saliva che si schiantò violentemente sul suo zigomo sinistro; facemmo entrambi finta di nulla, e mi fece accomodare in una piccola stanzetta che sembrava la sala d’attesa di un dentista. Cominciai a sfogliare distrattamente un’interessantissima rivista dove intervistavano alcuni giovani che “ce l’avevano fatta!” mentre posavano facendo il gesto di Fonzie, quando fui chiamato dalla signorina di prima che nel frattempo si era asciugata la guancia:«prego», disse, e mi indicò una porta alle sue spalle; dietro una scrivania, impegnato a sfogliare il curriculum che avevo consegnato alla segretaria, c’era un giovane più o meno della mia età, elegantemente vestito e con un taglio di capelli ripugnante che, non appena mi vide, si alzò e mi strinse la mano con un’energia tale che stavolta fui io a gemere di dolore; ovviamente per raggiungere una stretta del genere doveva aver passato molto tempo in palestra, oppure a stringere mani, o a masturbarsi, fatto sta che stavolta riuscii ad evitare di sputare e sorridendo come solo un giovane dinamico e vincente può fare mi sedetti di fronte a lui. Il selezionatore riprese tra le mani il mio curriculum e cominciò:«Allora Dario» - esordì, passando improvvisamente al “tu” - «come mai una laurea in filosofia?» - ormai sapevo quale risposta dare a questo tipo di domanda - «mi piacciono le sfide!» - il manichino mi guardò con soddisfazione - «vedo che hai lavorato nel terzo settore, ti piace aiutare gli altri?» - «mi piace vederli soffrire» - scherzai, ma ammiccando leggermente; il selezionatore mi lanciò un’occhiatina complice e proseguì - «parliamo di te; come ti definiresti? Polemico, accomodante, indipendente…» - «accomodante!» - risposi secco - «con tendenza all’ottusità…» - «cosa significa per te avere successo?» - continuò - «preferisci uno stipendio sicuro o un lavoro dinamico?» - «ovviamente un lavoro dinamico, lo stipendio fisso è una tale noia!» - «bene Dario» - concluse - «penso che noi due andremo molto d’accordo. Il colloquio è stato molto positivo, penso che da lunedì potremmo partire con una settimana di prova…» - sembrava fatta, ma a quel punto commisi un errore fatale; mi alzai e, al culmine della felicità, allungai la mano per ringraziarlo. Un errore imperdonabile! Avevo ormai imparato che non bisogna mai dare l’impressione di aver bisogno di un lavoro, ma di accettarlo come una prospettiva interessante; l’esperto osservatore se ne avvide subito e aggrottò la fronte:«come mai tanto entusiasmo?» - chiese - «hai forse bisogno di questo lavoro?» - «no!» - sparai subito - «per me è solo un interessante possibilità» - il manichino mi guardò sospettoso - «la tua reazione sembra confermare i miei dubbi. Ammettilo, Dario, tu hai bisogno di lavorare» - sentii che una goccia di sudore cominciava a scivolarmi lungo la fronte - «le assicuro, a me di questo lavoro non me ne frega niente!» - «tu vuoi lavorare! Vuoi i nostri soldi!» - «no! I soldi mi interessano ancora meno! Le giuro che sono venuto solo per perdere il mio tempo!» - il selezionatore non sembrava convinto - «anzi» - proseguii ormai in un bagno di sudore - «questo lavoro mi fa proprio schifo! Le giuro! Cosa devo fare per dimostrarglielo?» - «lo rifiuti!» - «Allora lo rifiuto! Non voglio questo lavoro». Il manichino sembrò tranquillizzarsi a queste parole - «forse stai dicendo la verità. Vediamo…quanto vorresti guadagnare?» - «non credo spetti al dipendente scegliere quanto guadagnare» - un lieve sorriso mi fece intuire che avevo riacquistato qualche possibilità - «bene, forse ti avevo giudicato male, sei un giovane in gamba!» - ormai ero talmente sudato che il deodorante cominciava a scivolarmi lungo la schiena. Ancora una volta, lo sguardo severo del selezionatore si posò su di me:«agitato? Come mai? Un po’ d’insicurezza? Emozionato forse?» - «chi io? Sono troppo ottuso per emozionarmi!» - «eh, no!» - rispose il dannato - «a me sembra proprio in preda ad una forte emozione» - sentivo che dovevo cavarmela in qualche modo - «forse do questa impressione» - biascicai, cercando di apparire più insulso possibile - «ma le assicuro che io non mi emoziono mai, sono quasi un vegetale!» - «un vegetale eh? Non è un po’ presuntuoso?» - «no! Cioè, forse…non lo so, ma gli amici mi chiamano “barbabietola”!» - «giuri!» - «giuro! A volte anche “sedano”» - forse esagerai un po’, perché mi accorsi dalla sua espressione che l’avevo sparata troppo grossa; per fortuna, riuscii a correggere subito il tiro:«ma i miei amici mi vogliono molto bene!». Ancora una volta sentii di aver recuperato in zona Cesarini. Mi accorsi di avere un aspetto disgustoso specchiandomi nella pozzanghera di sudore che si era formata ai miei piedi; non vedevo l’ora di andarmene, ero al limite della tensione nervosa. Ma il selezionatore doveva sospettare ancora qualcosa, perché non si decideva a lasciarmi andare; continuava a giocherellare con la penna facendola rotolare aritmicamente lungo la scrivania, pensando a una domanda risolutiva, che avrebbe chiarito definitivamente se io fossi adatto o meno a quel lavoro. Maledetto! Non dimenticherò mai quel momento; mi guardò dritto negli occhi e mi chiese con la massima serietà:«Bene Dario. Ho deciso che sei adatto allo scopo; ora abbiamo due possibilità: un posto come segretario, con un contratto a tempo indeterminato e paga sindacale, o un bel contratto di collaborazione coordinata e continuativa, con mansioni di senior - public - sensational operator, con ottime possibilità di carriera… verso cosa sei orientato?». Pensai subito all’ennesimo test, e sapevo anche cosa avrei dovuto rispondere; tuttavia, il suo sorriso rassicurante mi fece pensare che forse era una proposta autentica; e in tal caso, avrei senz’altro optato per la prima ipotesi. Ma se fosse stata una prova? A questo punto non avevo più liquidi in corpo, e cominciai a sudare sangue come in un’apparizione mariana… alla fine presi la mia decisione, rischiare il tutto per tutto: prova o meno, se c’era anche una vaga possibilità di ottenere il posto fisso, io dovevo rischiare: «sarei orientato verso il segretariato…» - «lo sapevo!» - balzò letteralmente dalla sedia - «tu hai bisogno di lavorare!» - quest’ennesima aggressione ebbe il potere di farmi saltare i nervi - «e va bene! Si! Ho bisogno di lavorare, e voglio un cazzo di stipendio!» - «Fuori!» - urlò il manichino rosso dalla rabbia - «Fuori di qui!» - la bellissima ragazza di poco prima si precipitò nella stanza digrignando i denti e mi intimò di imboccare l’uscita. Cercai di guadagnare tempo per dire altre due paroline al manichino, ma la ragazza, cercando di fermarmi, scivolò nella pozzanghera di sudore e sangue; allungai subito la mano per aiutarla, ma lei continuava a fissare quella pozza di liquido informe senza rispondere; quando finalmente si voltò verso di me, con lo sguardo furente, riuscii a biascicare appena un:«mi scusi…». E ancora una volta, mi lasciai sfuggire un proiettile di saliva che stavolta si schiantò sullo zigomo destro della ragazza…
Poco dopo, ero di nuovo in giro per il centro direzionale, un po’ più malconcio e più magro di prima, con i boxer che ormai erano penetrati nella carne, e cercando di attingere ad una nuova carica di ottimismo lessi il nome della prossima agenzia da visitare.
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