1. Il problema etico nelle scienze dell’educazione
Qualunque concezione pedagogica sottende alle proprie metodologie e pratiche educative una problematica etica. Perché l’educazione non si risolva in una serie di applicazioni prive di un progetto culturale riconoscibile, dunque nella logica di un cieco asservimento al sistema normativo di riferimento, cioè quello dominante, è necessario che riflessione pedagogica e filosofica procedano in maniera parallela. Ma la problematica etica nasce con l’uomo, e come l’uomo si rivela un processo in continuo divenire, impossibile da cristallizzare ma anche da accantonare, poiché assolutamente imprescindibile. Ogni filosofia dell’educazione ha una matrice di natura sociale, nel senso che la pratica educativa nasce comunque da un’esigenza di integrazione, per cui il soggetto passivo/attivo del processo pedagogico deve essere preparato ad assumere il suo ruolo nel contesto sociale; e deve essere un ruolo “socialmente accettabile”. Ad una concezione di un uomo totalmente “per lo stato”, la cui formazione è dunque orientata esclusivamente ad un suo proficuo inserimento nel tessuto sociale (proficuo per la società in abstracto, non per l’individuo), si contrappone una concezione umanista, dove l’uomo, con le sue risorse e i suoi bisogni, è posto al centro del disegno educativo. Ma anche in questo caso, resta imprescindibile la funzione sociale della pedagogia; nessuna struttura sociale, attraverso tutte le sue risorse educative (famiglia, scuola, chiesa, mass media, ecc.) può educare un soggetto al conseguimento della propria felicità, libertà o quel che sia, prescindendo dal resto della collettività. Educare un soggetto alla “libertà”, dove la libertà è intesa perseguibile finché non intacca quella di qualcun altro, significa educare all’integrazione ed inclusione sociale. Ma quello che interessa, ai fini della nostra riflessione, è stabilire questo principio: la concezione pedagogica odierna prevede la formazione di soggetti in grado di vivere attivamente la collettività, ovvero di buoni cittadini, così come nella concezione democratica del termine. Dunque, uomini integrati positivamente nella società, ma in una società che tenga conto del valore imprescindibile dell’individuo, dei suoi diritti fondamentali e universali. La cultura pedagogica attuale si pone dunque il problema della felicità degli uomini, ma della loro felicità “con” gli altri uomini. Questa “corrispondenza d’amorosi sensi” è possibile soltanto, secondo quest’ottica, in una società democratica.
Apparentemente abbiamo a che fare con una concezione perfetta, limpida, priva di qualunque ambiguità; l’uomo al centro del sistema di valori, motore pensante e fattivo della collettività; ma anche i più ferventi sostenitori del sistema democratico non possono negare che si tratta di un sillogismo che contraddice continuamente le sue premesse. Che tutti gli uomini siano uguali è ovviamente contraddetto da qualunque raffronto con la realtà empirica; si tratta di un principio di riferimento, al limite di un’intenzione, “gli uomini devono essere tutti uguali”, ma ovviamente non è una realtà di fatto. Le possibilità sono due: 1) il sistema democratico non è ancora pienamente maturo, ma riuscirà prima o poi a garantire una reale uguaglianza tra i suoi cittadini; 2) il sistema democratico poggerà sempre su questa contraddizione, e potrà sopravvivere soltanto in virtù del permanere di questa discrepanza tra i suoi cittadini.
In entrambi i casi, esiste un problema etico di fondo di grande spessore. Di fatto, esistono cittadini, e dunque uomini, per quanto detto sopra, di serie A e di serie B, detto nel modo più banale possibile. Come si pone un educatore di fronte ad un emarginato, un soggetto svantaggiato, un uomo ai margini? Educatori che hanno fatto del loro lavoro quasi una missione, convinti dell’importanza di riscattare anche il più emarginato degli uomini, tradiscono una segreta tendenza ad appiattirsi sulle posizioni del sistema dominante e, dunque, a sacrificare anche i ricettori dell’azione pedagogica, nel tentativo di integrarli in un sistema che, di fatti, li mette ai margini. Perché un emarginato dovrebbe introiettare il sistema di valori della società che, di fatto, fa di lui un escluso? In questo caso integrarsi si tradurrebbe in un semplice asservimento.
Ma è davvero dalla parte dell’emarginato, l’educatore che invece sostiene e rinforza la volontà di non assoggettarsi del suo assistito, lasciandolo così permanere nella sua marginalità, non asservito ma schiacciato?
La verità è, probabilmente, che non è pensabile che il padrone e il servo abbiano lo stesso sistema di valori, la stessa etica; quando è così, è il primo che ha imposto le proprie regole al secondo. Di conseguenza, non ha senso un sistema pedagogico che si rivolga, come scrive Freire[1], agli “oppressori e agli oppressi” con le stesse parole, le stesse logiche. Ma esiste, oggi, una “pedagogia degli oppressi”? Evidentemente no, e la tendenza dominante è quella di riportare “le pecorelle smarrite” all’ovile, magari riconoscendo l’ingiustizia di fondo, ma stigmatizzando comunque i gesti “non allineati”, attraverso quel sistema di valori che appartiene agli oppressori e anche agli educatori. Ma può un educatore avere il medesimo sistema di valori degli oppressori? E viceversa, potrebbe invece assumere completamente quello degli oppressi?
La mancanza di un sistema di valori di riferimento alternativo a quello dominante, per gli emarginati, porta a due conseguenze probabilmente inevitabili: innanzitutto, e ovviamente assieme ad una concausa di motivazioni, la nascita di sub-culture devianti, prive di un reale sistema di valori alternativo. Le sub-culture assumono i valori di riferimento delle classi dominanti ma, non potendo accedervi con gli stessi mezzi, ricorrono all’illegalità, ristrutturando il proprio sistema etico di riferimento in questa nuova dimensione, creando una vera e propria “ideologia criminale”. In secondo luogo, e il problema riguarda gli educatori, la concretizzazione di un’impasse senza sbocchi, dove l’unica via d’uscita possibile sembra l’asservimento, prospettiva che non può tranquillizzare lo spirito di un educatore coscienzioso.
2. L’ambiguità dell’intervento nelle carceri.
La questione evidenzia tutta la sua problematicità se l’attenzione viene spostata dal concetto di educazione a quello di ri-educazione. In questo senso tutta la contraddittorietà della cultura pedagogica odierna emerge in maniera incontrovertibile. Poniamo il caso della ri-educazione dei detenuti, cioè di soggetti devianti che devono essere inseriti nuovamente nel contesto sociale da cui sono stati provvisoriamente isolati; la riforma penitenziaria 354/1975 ha sancito la funzione rieducativa e risocializzante della pena, attraverso una serie di importanti innovazioni tra cui l’inserimento della figura professionale dell’educatore, prima previsto soltanto nell’ambito della giustizia minorile. Ma la concezione rieducativa della pena ha ovviamente radici più antiche e profonde; Giovanni Howard[2] in Inghilterra e Cesare Beccarla[3] in Italia, nella seconda metà del ‘700 hanno gettato le basi della odierna concezione della pena. Non è questa la sede per una ricostruzione della storia della cultura penalista e delle istituzioni totali, basti segnalare che l’orientamento attuale è quello ri-educativo, seppure tra moltissime contraddizioni, dovute sia allo stato effettivo del sistema custodiale (sovraffollamento, inadeguatezza delle strutture), che di fatto non consente l’attuazione delle intenzioni educative, sia ad alcune incongruenze tra i vari interventi del Legislatore susseguitesi negli anni. Ad es., la Gozzini e la Simeone-Saraceni che, introducendo la possibilità di accedere alle misure alternative alla detenzione direttamente dalla libertà, non consentono l’osservazione scientifica della personalità, punto nevralgico della funzione rieducativa secondo i dettami della riforma del 1975. Si tratta di interventi per molti versi positivi, poiché tesi ad evitare il contatto con il difficile ambiente carcerario ad autori di reati minori; inoltre rappresentano anche un modo per reagire al dramma (perché di dramma si tratta) del sovraffollamento carcerario e, nondimeno, a problemi di natura economica. Si aprono tuttavia ulteriori contraddizioni, tenendo conto della tendenza degli ultimi anni a politiche più repressive e al ritorno dell’opinione pubblica verso risposte orientate ad una concezione retributiva della pena. Il discorso è ampio e meriterebbe ben altro approfondimento, ma come già detto esula dall’obiettivo di questo lavoro.
Ribadiamo quanto già asserito: l’attuale orientamento di pensiero rispetto al trattamento delle devianze è di tipo ri-educativo. Qual è la premessa etica di tale concezione? Il soggetto deviante va risocializzato, cioè reinserito in maniera positiva nella società. Questa è la premessa da cui partire; qual è la motivazione? Chi è che deve beneficiare di questo intervento, la società o il soggetto deviante? Coerentemente con la concezione pedagogica dominante, la distinzione ha poco senso. Tanto la struttura sociale quanto l’individuo singolo trarrebbero un indubbio beneficio da una proficua integrazione. L’attenzione al soggetto è evidente, altrimenti non ci sarebbe motivo di non ricorrere alla pena di morte. Questa pratica ripugna alla coscienza collettiva in quanto tiene conto soltanto di un’esigenza di sicurezza sociale (e anche su questo ci sarebbe molto da discutere), prescindendo dal sacrosanto diritto dell’individuo alla vita.
3. Le ragioni sociali della devianza
La teoria del conflitto culturale di Sellin[4] si fonda sull’idea di norme di condotta, ovvero di regole che orientano il comportamento. Queste norme di condotta hanno una matrice culturale, e sono stabilite in funzione delle esigenza dei gruppi dominanti. Ovvero, coloro che detengono il potere sociale e politico, hanno in queste norme un efficace strumento per imporre la propria idea di devianza, di crimine. Queste norme a loro volta sono l’espressione di un particolare gruppo sociale. In pratica, se una cultura approva un atto che configge con l’orientamento culturale dominante, allora quell’atto diventa criminale.
Ancora più significativa ai fini di questo lavoro è la teoria dell’anomia così come espressa a Merton[5]. Lo studioso segnalò che nelle società alcune mete sono particolarmente messe in risalto (successo economico), ma che non tutti i mezzi per conseguire queste mete sono da considerarsi legittimi. Tuttavia non tutti i membri del contesto sociale hanno le stesse possibilità di conseguire i medesimi obiettivi con mezzi legittimi, e, conseguentemente, tenteranno di raggiungere il risultato anche con mezzi illegittimi. Una società è anomica quando le cause della disuguaglianza sono da imputare alla struttura sociale stessa. In pratica l’anomia è una incongruenza della società che propone delle mete senza però offrire a tutti i mezzi per conseguirle. Ovviamente non tutte le mete sono egualmente appetibili da tutti gli individui o le classi sociali. Merton vuole riferirsi fondamentalmente ad un messaggio culturale, il quale legittima la competizione per l’ascesa e la mobilità sociale per coloro i quali sono interessati a raggiungerla. E’ l’enfasi con cui una società insiste su alcune mete che segna il grado di anomia di una società stessa (Merton segnala in particolare il caso dell’America e del rilievo che ha in essa in conseguimento del successo economico). In sostanza, la teoria dell’anomia di Merton spiega come la struttura sociale stessa contribuisca a produrre devianza.
Occupandosi della delinquenza giovanile, Cohen[6] presenta un ragionamento interessante: i bambini delle classi inferiori hanno i loro primi problemi di integrazione sin dalle scuole elementari, dove si trovano a misurarsi con bambini delle classi medie e dove vengono valutati da insegnanti con parametri di valutazione appartenenti alla classe media, estranei alla realtà del bambino. La condivisione, la definizione di obiettivi a lungo termine, il rispetto della proprietà; sono valori che ovviamente appartengono a chi possiede, a chi vive in un ambiente familiare dove si è abituati ad investire sul futuro, dove esistono delle aspettative per l’avvenire, dove esiste il culto del lavoro come mezzo valido per ottenere ciò che si desidera. Questo crea una notevole discrepanza tra questi ragazzi e quelli delle classi medie; anche gli insegnanti vengono percepiti, diciamo, dalla stessa parte degli alunni più privilegiati. Da questi presupposti teorici, è facile aprire un collegamento non azzardato con la cosiddetta teoria dell’etichettamento. Tannenbaum[7] ha scritto che quando un bambino viene scoperto a commettere un’azione “deviante”, in qualche modo gli viene affissa un’”etichetta”. Ciò qualifica il bambino come deviante, ed influisce sulla rappresentazione che il soggetto ha di sé; ma quest’etichetta è più che visibile, tanto che gli altri reagiranno non più al bambino, ma alla sua etichetta; è l’etichattamento, dunque, la base della devianza. In pratica, una volta piazzata l’etichetta, insorgono due meccanismi diversi:
1. la tendenza dell’osservatore a vedere l’etichetta anziché il soggetto che ne è portatore
2. l’interiorizzazione dell’etichetta da parte del suo portatore, fino all’autodefinizione di “deviante”
Due meccanismi diversi, dicevamo, ma convergenti nel provocare un’espansione della devianza, fino alla costruzione di una “carriera deviante”. E’ d’altra parte evidente che i soggetti delle cosiddette classi inferiori sono più facilmente suscettibili di essere etichettati. In generale le classi più agiate tendono a definire devianti quei comportamenti delinquenziali che afferiscono a situazioni di povertà ed emarginazione, riservando un trattamento ben diverso agli illeciti dei cosiddetti “colletti bianchi”. Ragion per cui chi ruba dei candelabri, come il Jean Valjean dei Miserabili, è un ladro; chi commette un falso in bilancio, è tutt’al più un disonesto.
Particolarmente interessanti sono anche le teorie sulle sub-culture devianti. Al di là della differenza nell’approccio, fondamentalmente convergono sull’assunto per cui i membri della società condividono un sistema di valori, di norme, di regole, che pongono alcuni di essi al di sopra degli altri. In qualche modo ciò rappresenta la legittimazione, anche a livello culturale, dell’ineguaglianza tra gli uomini.
Le disuguaglianze sociali sono funzionali alla società di mercato, dunque la devianza è un fenomeno congiunturale alla democrazia liberale. Potremmo spingerci oltre, discutendo sulla possibilità che il crimine stesso sia funzionale al sistema economico; ma è un argomento complesso, e comunque poco utile ai fini di questo lavoro. Che si tratti di un elemento costitutivo del sistema, o di una conseguenza inevitabile della sua stessa strutturazione, la sostanza non cambia. La società di mercato provoca devianza. E non spaventi questa conclusione; la democrazia rappresentativa liberale, specie in questi anni particolarmente allarmanti dal punto di vista delle relazioni internazionali, è diventata nell’immaginario collettivo un baluardo, l’unica forma di governo in grado di garantire e difendere libertà e diritti. Non si sta sostenendo la superiorità di teocrazie o dittature varie, ci mancherebbe altro, né postulando eversivamente un sistema migliore di quello democratico. L’assioma per cui “la società di mercato provoca devianza” è quanto ci interessa per proseguire nella riflessione.
Dopo quanto stabilito, rielaborando l’impianto dell’odierna concezione pedagogica, la stonatura è immediatamente individuabile. Praticamente, ri-educare e ri-socializzare significa “asservire”. Il soggetto deviante deve interiorizzare il sistema di valori dominante, cioè la sovrastruttura ideologica del sistema che l’ ha emarginato. Ci si aspetta dal deviante da rieducare, l’adesione ad un sistema di valori e regole funzionali all’oppressione della sua stessa classe. La finalità rieducativa svela tutta la sua ipocrisia, la sua intollerabile mistificazione. Malcom X[8], nella sua autobiografia, evidenzia il suo irriducibile disprezzo per una società che prima schiaccia gli individui con il suo peso, e poi li punisce se non riescono a sostenerlo. La nuova cultura penitenziaria introduce un elemento in più: non basta punire i soggetti messi ai margine dal sistema, devono anche introiettare il sistema di valori dominante, devono considerare giusta la loro punizione. Difficile immaginare qualcosa di più de-socializzante e de-strutturante. I devianti dovrebbero trasformarsi in tanti Zio Tom, sudditi per vocazione, passivi sostenitori delle istanze del padrone. Ma la trappola del sistema è sempre la stessa; sicuramente la qualità (parola forse inappropriata) della vita carceraria è migliorata con l’avvento dell’ideologia rieducativa. Qualcuno ha sostenuto che il carcere debba servire da “contenitore sociale”, la cui finalità è non soltanto arginare gli effetti devastanti della devianza diffusa, ma anche inibire le istanze di una classe sociale considerata “rivoluzionaria”, dunque pericolosa per il mantenimento dello status quo. Ai tempi della rivoluzione industriale, nelle carceri finivano soprattutto appartenenti alla classe lavoratrice. Secondo Focault[9] ciò era strumentale anche da un punto di vista economico, sfruttando il lavoro dei detenuti. Oggi nelle carceri troviamo sempre più spesso immigrati e tossicodipendenti. Ad ogni modo, se l’obiettivo è asservire anche culturalmente le classi più disagiate, la nuova finalità rieducativa si presta magnificamente allo scopo. E gli educatori sono i missionari di questa nuova frontiera dell’asservimento culturale, dell’accettazione della propria marginalità; e, contemporaneamente, sostengono i reclusi nella rivendicazione dei loro diritti di “detenuti”. Perché come detenuti hanno dei diritti, perché “sono” dei detenuti, non cittadini, detenuti e basta; e come tali, portatori di diritti.
Quale ruolo scomodo quello dell’educatore penitenziario. E’ la punta dell’iceberg, la problematicità della sua condizione è l’ipostatizzazione di una crisi dell’intera cultura pedagogica, percepita o meno che sia. Un educatore, se non vuole essere la faccia pulita di un sistema oppressivo ed ipocrita, deve liberarsi da questa insulsa mentalità risocializzante, dal piattume (e pattume) concettuale che, attraverso il sistema della “premialità”, elargisce premi a chi da prova di maggior asservimento e docilità. E tuttavia permane il problema posto all’inizio di questo lavoro; l’educatore che si schiera con il detenuto, incoraggiando e rinforzando le sue istanze rivendicative e devianti, è davvero dalla sua parte? O favorisce la sua condanna ad una vita da deviante? Anche per l’educatore, dunque, esiste una sorta di scissione; in teoria dovrebbe essere il mediatore tra la realtà esterna e quella carceraria, eppure quando esiste un rapporto di forza, la neutralità non esiste; se non stai con il più debole, aiuti il più forte; se non stai con l’oppresso, stai con l’oppressore. Tertium non datur. Non vorrei dare il senso di una ideologia manichea, ma soltanto evidenziare la contraddittorietà insita nel concetto stesso di ri-educazione in un sistema democratico. Riportiamo un passo tratto da uno studio del Prof. Remo Bassetti:
“…In ogni caso, la rieducazione può pensarsi come semplice ri-socializzazione, ossia induzione al rispetto delle norme di convivenza, o come vera ri-educazione cioè riapprendimento dei principi morali che il reo ha mostrato di non conoscere. Il suffisso “ri” tende ad attenuare ipocritamente il carattere coattivo dell’operazione. Se io vengo ri-educato o ri-socializzato mi viene solo fatto riacquistare ciò che già avevo posseduto. Ciò non è sempre vero ed è anzi palesemente falso quando la pena si rivolge a immigrati cresciuti in un diverso contesto culturale […] che dire se non c’è condivisione di valori perché il reo proviene da una comunità con valori diversi? Per esempi da un sistema culturale dove il senso attribuito alla violenza è differente dal nostro? Essa è un’educazione e si risolve nell’inculcare forzatamente al condannato i valori o quanto meno le condotte tipiche della comunità alla quale è approdato”[10]
Stabilita l’insulsaggine di un approccio educativo finalizzato all’adesione forzata ai valori dominanti, il ruolo dell’educatore può risolversi, come dice Bassetti, in “semplice ri-socializzazione, ossia induzione al rispetto delle norme di convivenza”?
Non esiste un vademecum del buon educatore, e non ci sono formule buone per tutte le situazioni. Ci sono gli educatori; ci sono i soggetti “destinatari di valori”, come vuole una certa pedagogia; e c’è una società complessa. Le cose cambiano a seconda del punto di vista che si assume, è una lezione vecchia che ogni tanto si dimentica; il sistema della premialità, nelle carceri, serve a favorire il la rieducazione dei detenuti, oppure a contenerne il dissenso, esploso in maniera devastante negli anni ’70? I permessi sono un’opportunità di contatto tra carcere e società esterna, o un’arma di ricatto dell’amministrazione penitenziaria per castrare sul nascere ogni istanza rivendicativa? O entrambe le cose?
Un educatore coscienzioso non può avere soluzioni a portata di mano, ma deve confrontarsi con questa problematica; un educatore deve accettare questa contraddizione e portarsela sulle spalle, senza cercare di risolverla in una formula etica da spacciare come uno stupefacente ai suoi “utenti”. La contraddizione c’è, e come abbiamo già detto, quando esiste una prova di forza, non stare da nessuna parte significa stare col più forte. E nascondere la contraddizione, in questo caso, fa il gioco del più forte.
4. Metodologia e prassi dell’intervento rieducativo
L’educatore non trasmette valori, e non rieduca nessuno. Questo è l’assunto da cui partire per provare a ricostruire un’ipotesi di intervento ri-socializzante nel settore della devianza. Ovviamente in questo scritto si intendono proporre soltanto degli spunti; ben altro lavoro sarebbe necessario per affrontare una questione così delicata da un punto di vista dell’ermeneutica quanto da quello etico e sociale.
La devianza segnala sempre una scissione sociale, una frattura che in qualche modo va ricomposta; assodate le problematiche precedentemente rilevate, ovvero la non-neutralità del sistema rispetto alla risposta deviante del soggetto, e dell’educatore rispetto a questa dialettica, l’intervento deve strutturarsi su una modalità di intervento re-integrativa. In pratica, si tratta di fornire all’utente quegli strumenti necessari ad una proficua integrazione sociale, in assenza dei quali la distanza non è colmabile. In particolare, vi sono due ambiti di intervento:
1) Interventi tesi a fornire e favorire l’acquisizione di strumenti in grado di facilitare il reinserimento sociale.
E’ una sfera di intervento di enorme importanza, non necessariamente riducibile al lavoro di un educatore. L’istruzione, la formazione professionale, l’acquisizione di abilità teorico-pratiche (gestione di un giornale, di un sito ecc.) forniscono al soggetto deviante delle capacità e conoscenze che migliorano le sue capacità di interazione con il sistema sociale. Il primo passo per ri-socializzare un soggetto, è metterlo in condizione di partecipare alla vita della comunità. Ovviamente le difficoltà relative all’inserimento anche professionale in società non si risolvono attraverso corsi di formazione. Si tratta solo di fornire degli strumenti; la possibilità concreta di esercitare le abilità apprese si innesta in una problematica più ampia che prevede necessariamente una collegialità nelle modalità di intervento, attraverso la creazione di una rete di relazioni e competenze orientata a superare l’isolamento in cui versano i soggetti devianti.
2) Interventi tesi a fornire l’acquisizione di conoscenze e abilità sociali
2.1.) Interventi tesi a fornire strumenti culturali utili ad un maggior livello di conoscenza delle dinamiche sociali
Ri-socializzare un soggetto significa anche sostenerlo e “accompagnarlo” nella comprensione delle dinamiche sociali di cui è in ogni caso soggetto partecipante. La modalità di intervento filosofica o sociologica è probabilmente la più adatta allo scopo. Una riflessione, non diretta ma facilitata da un educatore preparato, sulla propria condizione sociale, sulle interazioni e gli effetti sulla più ampia compagine sociale, rappresenta indiscutibilmente un passo avanti verso l’integrazione. Il soggetto deve avere gli strumenti culturali per esercitare una critica sulle dinamiche sociali che lo coinvolgono. L’approccio filosofico consente anche un affinamento delle capacità cognitive del soggetto, attraverso strumenti tipici della storia del pensiero e dell’attività dialogica. L’educatore in questo caso agisce da counselor. Diverse sono le conoscenze necessarie ad un operatore per intervenire in questo senso; le tecniche della RET, la Terapia Razionale Emotiva di Ellis[11], sono tra le più efficaci in questo senso. Secondo questa scuola il modo in cui verbalizziamo i nostri vissuti, condiziona a sua volta il nostro modo di vedere e vivere la realtà (in omaggio al pensiero di Epitteto[12] per cui non sono le cose in sé ad essere positive o negative per noi, ma il modo in cui le percepiamo). Per portare un esempio, un errore diffuso è la tendenza a globalizzare eventi e giudizi: “tutti sono contro di me”. Oppure la tendenza a ingigantire e drammatizzare gli eventi, postulandone quasi un’ineluttabilità:”devo riuscire a dirgli quello che penso”, “non posso fare a meno di arrabbiarmi”. Senza addentrarsi nel complesso delle dinamiche di un intervento di Terapia Razionale Emotiva, si vuole sottolineare come intervenendo sugli errori filosofici del soggetto, sui processi contradditori del pensiero, si possono fornire al medesimo delle nuove chiavi di lettura ed interpretazione del reale utili anche ad affinare le proprie capacità introspettive.
2.2) Interventi tesi a fornire abilità sociali
E’ un aspetto generalmente trascurato dagli educatori. Un ri-socializzatore non apprende queste tecniche soltanto per migliorare il proprio livello comunicativo, ma per insegnarle. Non va assolutamente trascurato questo punto; aiutare un soggetto con problemi di disadattamento ad impadronirsi di abilità sociali come la “comunicazione assertiva”, o la capacità di “autocontrollo” significa aprirgli dei nuovi canali comunicativi. Le possibilità di integrazione sono sensibilmente migliorate se il soggetto è padrone di un efficace livello comunicativo.
In conclusione, sarebbe forse auspicabile la sostituzione del termine “educatore” (che di per sé non ha certo una valenza negativa) con quello di ri-socializzatore, oppure facilitatore sociale. Le parole sono importanti, e la dimensione semantica ne traccia anche una progettualità, l’intenzione; e, ad avviso di chi scrive, la priorità è intervenire sul solco invisibile, ma assolutamente tangibile, che squarcia il tessuto sociale; per agire concretamente ed efficacemente su ciò che de facto impedisce la realizzazione di condizioni di uguaglianza, nei diritti e nelle possibilità; la stessa uguaglianza di cui si riempiono la bocca i suoi primi usurpatori.
[1] Freire P., La pedagogia degli oppressi, Torino, EGA, 2004
[2] Howard J., The state of the prisons in England and Wales, Montclair, N.J., 1792
[3] Beccarla C., Dei Delitti e delle Pene, Milano, Rizzoli, 1994
[4] Sellin T., Culture conflict and crime, New York, Social Science Research Council, Bulletin 41, 1938
[5] Merton R.K., Teoria e struttura sociale, vol.II: Studi sulla struttura sociale e culturale, Bologna, Il Mulino, 2000
[6] Cohen A.K., Ragazzi delinquenti, Milano, Feltrinelli, 1981
[7] Tannenbaum F., Crime and the community, Boston, Mass., Ginn., 1938
[8] Alex Haley (a cura di), Autobiografia di Malcom X, Torino, Einaudi, 1967
[9] Focault M., Sorvegliare e punire – Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2004
[10]Bassetti r., Derelitti e delle pene – Carcere e giustizia da Kant all’indultino, Roma, Editori Riuniti, 2003, p.61
[11] Ellis A., Ragione ed emozione in psicoterapia, Roma, Astrolabio - Ubaldini editore, 1989
[12] Epitteto, Manuale
La Politica del Benessere, Ottobre 2006
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3 commenti:
"la democrazia produce devianza".
assunto accettabile ed empiricamente riscontrabile con una certa facilità. a condizione di alcuni corollari.
1. "anche" la democrazia produce devianza (intesa genericamente), ma non è il solo sistema sociale che lo fa e sarebbe bene indagare se è quello che ne produce di più (in senso quantitativo e qualitativo).
2. non si danno esempi storici di società senza "devianza" (lasciamo perdere eventuali esempi di società primitive e/o microscopiche comunità tribali).
3. sia chiaro (forse lo è già ma in questi tempi nostalgici repetita iuvant) che non c'è mai stato un tempo idilliaco in cui tutti gli uomini erano egulitariamente inseriti in una società pacifica e senza crimine e che mai una simile arcadia è stata deturpata dalla democrazia e dal capitalismo.
tanto premesso, accettando il tuo assunto, mi chiedo, stavolta con l'umiltà di chi si avventura "in munere alieno", se non sia proprio la democrazia (intesa in senso lato, come principio democratico che progressivamente si fa strada nelle organizzazioni statali) che si pone il problema della "fuoriuscita dalla regole comuni" in termini di devianza e, dunque,in termini di reupero. e se non sia forse la democrazia l'unico sistema che può farlo, sia sul piano teorico che su quello empirico. poichè solo un sistema che per lo meno in teoria ammette (anzi postula) l'autodeterminazione dell'individuo può ritenere necessario e utile che egli accetti le regole della comunità per tornare a viverci come individuo (e non solo come unità di produzione). viceversa in uno stato etico dovrebbe forse parlarsi di rieducazione, cioè di conversione ai principi, accettazione forzata degli stessi, poichè non vi è cittadino nè individuo nè altro fuori da essi. fuori da essi vi è solo nemico pubbico, pericolo per la società. so bene che non sto descrivendo una cosa che esiste, ma una tendenza che viene predicata, così come non esiste la Democrazia, ma solo un sistema che viene desiderato, uno schema che orienta. eppure solo alla luce di quello schema è predicabile un recupero dell'individuo deviante in termini di recupero della sua individualità alla dialettica sociale e non solo di rieducazione come imposizione forzata di valori.
per ora mi fermo, il blog è tuo e i mappazzoni ce li puoi scrivere solo tu, però come vedi, ho commentato per primo e adesso mi devi una disputa sulla democrazia.
certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi poi ritornano...
“mi chiedo […] se non sia proprio la democrazia (intesa in senso lato, come principio democratico che progressivamente si fa strada nelle organizzazioni statali) che si pone il problema della "fuoriuscita dalla regole comuni" in termini di devianza e, dunque,in termini di reupero.”
Per devianza, all’interno del dibattito scientifico sull’argomento, si intende fondamentalmente ciò che è percepito come tale dalla comunità. Ovvero non soltanto ciò che è illegale, ma anche ciò che, pur non violando alcuna norma, si scontra con il senso comune della morale o più semplicemente della “giusta condotta” (ad es., la prostituzione, l’accattonaggio, il consumo personale di sostanze stupefacenti). Detto questo, l’identificazione tra devianza e “fuoriuscita dalle regole comuni” non è un concetto che in qualche modo possa essere fatto risalire alla cultura democratica, e soprattutto da esso non scaturisce come conseguenza logica quello di “recupero”.
Mi riferisco anche a quanto scrivi successivamente, ovvero:
“solo un sistema che per lo meno in teoria ammette (anzi postula) l'autodeterminazione dell'individuo può ritenere necessario e utile che egli accetti le regole della comunità per tornare a viverci come individuo (e non solo come unità di produzione)”
Il concetto di autodeterminazione dell’individuo ha ovviamente origini molto più antiche della democrazia; immagino tu voglia sottolineare l’autodeterminazione “politica”, ovvero la libertà di partecipare alle scelte fondamentali attraverso il sistema della delega o della democrazia diretta ecc.; questa è una proprietà di uno stato democratico. Ma la concezione di un uomo capace di autodeterminarsi in termini di condotta, e quindi il conseguente dibattito sul tipo di pena da infliggere nei casi di infrazione alle regole stabilite, ha ovviamente una storia indipendente.
Concepire l’uomo come libero nelle sue scelte, significa anche sottolinearne la “responsabilità”. Questo può aprire la strada ad una cultura del reinserimento sociale così come, proprio in virtù della libera volontà del soggetto deviante, ad un inasprimento delle pene finalizzato a rinforzare il carattere retributivo e deterrente della risposta penale. E’ una questione più culturale che politica, tant’è che propria nella democrazia considerata la più avanzata (almeno dal punto di vista teorico), ovvero gli Stati Uniti, si ricorre ancora e con frequenza alla pena di morte. E i più colpiti sono proprio i soggetti la cui caratteristiche hanno portato a teorizzare la pena come occasione di recupero sociale.
La democrazia mistifica. La rieducazione passa attraverso nuovi metodi di coercizione più morbidi che, a mio avviso, rendono meno opprimente la vita dei “ristretti”. Ma tutto sommato, anche le politiche di decarcerazione (che tanto scalpore destano nei media e nel sentire comune) assomigliano più ad un sistema per rispondere all’annoso problema del sovraffollamento delle carceri che non una reale pratica di reinserimento sociale. Stando ai dati, i detenuti aumentano sempre. Solo che passano meno tempo in galera.
E' un tema molto complesso, a mio avviso, e ancor più difficile è reso dalla messa in comunicazione di due concetti quali quello di democrazia e quello di devianza, entrambi scivolosi e di per sé astratti.
Assumendo come "democrazia" l'equivalente del sistema politico che sorregge l'attuale quadro produttivo di impronta capitalista (capitalismo non è uguale a democrazia; capitalistiche sono state anche le dittature fascista e nazista) mi sentirei di osservare quanto segue:
1)La nostra democrazia capitalista produce comportamenti antisociali (che definiamo in senso scientificamente articolato "devianza", ma qui mi limito a semplificare un pò) per lo più involontariamente. L'ordine sociale basato sull'ineguaglianza voluto dal capitalismo deve inevitabilmente determinare esclusione ed emarginazione sociale. Non credo sia un obiettivo perseguito, ma una conseguenza ineluttabile considerata una variabile da gestire in qualche modo. Certo i comportamente antisociali non sono solo frutto di emarginazione. L'evasore fiscale e il furbetto del quartierino infrangono le regole e colpiscono gli altri. Ma non sono considerati socialmente dei deviati. Nel capitalismo la devianza coincide con gli effetti collaterali che si producono nella fascia più sfruttata della popolazione
2) Il recupero, invece, è per il sistema produttivo soltanto una questione economica. Il mantenimento del detenuto ha un costo sociale molto alto, così come la permanenza dei comportamenti antisociali (richiede infatti maggiore impegno poliziesco). Il Capitale dunque chiede a gran voce il recupero, e ne forgia l'ideolologia progressista. Al tempo stesso, per mantenere l'ordine costituito, forgia anche l'ideologia contraria, cioè la "tolleranza zero", e così, in questa contraddizione di sistema, si dibatte inutilmente il sistema carcerario nostrano.
Il problema non è dunque relativo al sistema politico, ma quello produttivo. Nessuno rimuoverà mai i comportamenti antisociali, ma bisognerà vedere:
a) quale sistema PRODUCE più comportamenti antisociali
b) quale sistema PREVIENE meglio quei comportamenti
c) quale sistema RECUPERI (non nel senso fin qui usato, ma in senso sostanziale) meglio i soggetti che commetto crimini contro gli altri e contro il bene pubblico
Carlo Scognamiglio
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