Per chi non ne fosse informato, c'è un emendamento della Lega al pacchetto sicurezza del governo: i medici saranno obbligati a denunciare i propri pazienti se clandestini.
Al di là dello schiaffo in faccia ad Ippocrate e al suo "Giuramento", e dunque alla deontologia professionale dei medici (art.3: "Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di CONDIZIONE SOCIALE, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali e sociali nelle quali opera"), mi sembra che anche la nostra Costituzione dica qualcosa riguardo l'UNIVERSALITA' del diritto alla salute (art.32).
Vedo tre possibili conseguenze ad una soluzione del genere:
1) L'inaccessibilità delle cure mediche per molti immigrati clandestini (per i quali la malattia è preferibile al ritorno in patria)
2) Il capestro - il ricatto fondato sul primo dei beni (la salute) - per espellere i clandestini
3) Probabile: la nascita (o meglio il pauroso incremento, perchè dubito non esista già almeno in forma embrionale) di una sanità clandestina. Anche questa mi sembra una prospettiva avvincente...
A cosa mira in realtà questo emendamento?
Ad indebolire ulteriormente la più stracciata delle categorie sociali? A soddisfare gli umori repressivi di un elettorato con la bava alla bocca? Mi auguro qualcuno non pensi sul serio che possa servire a diminuire il numero dei clandestini (a meno che non si punti a farli diminuire in virtù di qualche epidemia...); al massimo possiamo ridurli ad una condizione ancora più marginale, plasmandoli sempre più come ci piace immaginarli: brutti, sporchi, malati e cattivi...
Magari tra qualche anno si potrà fare propaganda spiegando che i clandestini "portano malattie". No, non le portano. E' un nostro gentile omaggio.
Comunque mi pare inutile citare la nostra costituzione. Ricordo bene dove la Lega voleva infilarsi il tricolore; facile pensare che ci sia un cantuccio libero anche per essa.
domenica 28 dicembre 2008
venerdì 5 dicembre 2008
Sono stato molto indeciso in questi giorni se spendere qualche parola sull'oscena posizione della Chiesa riguardo la questione "depenalizzazione del reato di omosessualità".
Ovviamente la Chiesa non si è espressa a favore della pena di morte per i "diversi".
Quella dei barbagianni ecclesiastici è una scelta politica: sostenere la depenalizzazione dell'omosessualità potrebbe significare - di contro - favorire pressioni nei confronti degli Stati (tra cui il nostro) nei quali gli omosessuali non hanno tutti i diritti civili degli etero.
Il ragionamento è semplice: noi non vogliamo essere rotti le scatole sui diritti degli omosessuali...quindi, preferiamo avallare in qualche modo il reato di omosessualità (punito, in alcune nazioni, con la morte) piuttosto che rishiare di farli sposare.
Questa è la Chiesa. E questi i suoi valori di riferimento.
Poi, un piccolo ringhio del Pasore Tedesco (come ebbe a suo dire, con lungimiranza, "Il Manifesto"), e il governo fa marcia indietro sui tagli alle scuole private...cattoliche.
Ma perchè dobbiamo finanziare le scuole dei preti? Proprio mentre sono in atto tagli alla scuola pubblica.
Allora, se davvero vogliamo la libertà di educazione (concetto sparato davvero "a cazzo"), perchè non cominciamo a ragionare di scuole islamiche parificate? No, eh? Addirittura qualcuno vorrebbe chiudere anche le moschee, figuriamoci le scuole...
Non è una questione marginale, perchè diavolo la Chiesa deve godere di un appalto su una questione essenziale come l'educazione?
Ovviamente la Chiesa non si è espressa a favore della pena di morte per i "diversi".
Quella dei barbagianni ecclesiastici è una scelta politica: sostenere la depenalizzazione dell'omosessualità potrebbe significare - di contro - favorire pressioni nei confronti degli Stati (tra cui il nostro) nei quali gli omosessuali non hanno tutti i diritti civili degli etero.
Il ragionamento è semplice: noi non vogliamo essere rotti le scatole sui diritti degli omosessuali...quindi, preferiamo avallare in qualche modo il reato di omosessualità (punito, in alcune nazioni, con la morte) piuttosto che rishiare di farli sposare.
Questa è la Chiesa. E questi i suoi valori di riferimento.
Poi, un piccolo ringhio del Pasore Tedesco (come ebbe a suo dire, con lungimiranza, "Il Manifesto"), e il governo fa marcia indietro sui tagli alle scuole private...cattoliche.
Ma perchè dobbiamo finanziare le scuole dei preti? Proprio mentre sono in atto tagli alla scuola pubblica.
Allora, se davvero vogliamo la libertà di educazione (concetto sparato davvero "a cazzo"), perchè non cominciamo a ragionare di scuole islamiche parificate? No, eh? Addirittura qualcuno vorrebbe chiudere anche le moschee, figuriamoci le scuole...
Non è una questione marginale, perchè diavolo la Chiesa deve godere di un appalto su una questione essenziale come l'educazione?
sabato 22 novembre 2008
La mission culturale per una nuova forza di sinistra
Il progetto di una nuova costituente per la sinistra si colloca in una fase emergenziale, conseguente all’esito disastroso delle ultime elezioni che hanno relegato – per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale – la sinistra comunista fuori dal Parlamento.
Inevitabile, dunque, nel patrimonio genetico di una nuova forza di sinistra, la riflessione profonda sulle regioni di una sconfitta storica, esito di un progressivo scollamento dalle forze sociali, dalla cittadinanza, dai luoghi di vita e lavoro. Soprattutto, dai luoghi del disagio.
Tuttavia, la disfatta dell’Arcobaleno è soltanto la punta di un iceberg, la parte visibile di una ferita apertasi nel 1989. Idealmente, è dai cocci del muro che si deve ricominciare a costruire.
Ciò di cui abbiamo bisogno è una sinistra con un progetto politico e culturale riconoscibile, non asservito agli umori del ceto medio o alle malinconie di irriducibili rivoluzionari.
Una sinistra in grado di proporsi attivamente nel dibattito culturale, di fronteggiare il pensiero unico e proporre una diversa e più scientifica lettura delle dinamiche sociali.
Una sinistra in grado di stare tra le persone, di crescere partendo dal basso, di rappresentare il disagio delle fasce più deboli di popolazione.
Nuova deve essere l’energia, la voglia di essere motore propulsore delle dinamiche di cambiamento, nuovo il desiderio di protagonismo politico e sociale.
Nuove devono essere le modalità di incontro con la cittadinanza, la qualità dell’impegno e della comunicazione.
Nuovi dovrebbero essere i volti, i nomi.
Nuove le parole d’ordine e, forse, i simboli.
Ciò che non deve cambiare, invece, è ciò che rende tale una forza di sinistra: le istanze progressiste, la matrice culturale, l’orizzonte etico, la scelta operativa.
Personalmente, individuo nel lessico utilizzato a suo tempo da Pizzorno, ovvero la dicotomia concettuale di “inclusione/esclusione”, la bussola ideale per l’orizzonte etico di una nuova sinistra.
Sinistra è inclusione, estensione della cittadinanza, partecipazione, articolo 3 della nostra Costituzione, universalità dei diritti, dignità sociale.
La storia della sinistra è soprattutto rivoluzione culturale; non quella di Mao, bensì quella del “rovesciamento” dei paradigmi. Quella che ha insegnato agli operai che non dovevano ringraziare i padroni per il fatto di lavorare.
Il coraggio, dunque, di un pensiero di rottura, che non asseconda gli umori dell’elettorato ma – se necessario – lo traumatizza.
Rovesciare i paradigmi culturali dominanti orientati all’esclusione sociale: questa deve essere la mission culturale di una nuova sinistra.
Prendiamo l’esempio delle “classi ponte”, la proposta leghista di separare i percorsi scolastici dei bambini extracomunitari da quelli italiani, fino all’acquisizione di un livello di conoscenza della lingua italiana tale da rendere possibile l’integrazione scolastica (traduzione: tale da non far perdere tempo ai nostri ragazzi).
Non ci siamo risparmiati nel contestare in ogni modo questo irricevibile e goffo tentativo di far passare una scelta di esclusione sociale per un tentativo di favorire l’integrazione degli studenti extracomunitari. Si è più volte ribadito come sia l’integrazione a favorire la conoscenza della lingua e non il contrario; come una scelta del genere sul lungo periodo produrrebbe antagonismo sociale e dunque maggiore insicurezza ecc…
Tuttavia, una forza di sinistra deve avere il coraggio di capovolgere radicalmente il punto di vista, in un’ottica decisa di inclusione sociale: anche i nostri ragazzi, in verità, hanno bisogno di imparare a integrarsi con gli immigrati. Le classi ponte rappresentano una discriminazione nei confronti degli extracomunitari, ma anche la privazione di un’opportunità di crescita intellettuale e morale per i nostri figli.
Non c’è nulla di scandaloso in questo concetto, è un’ottica di inclusione sociale, crescita morale, ciò che dovrebbe essere patrimonio irrinunciabile di una forza di sinistra.
Ovviamente, non sfugge la complessità delle dinamiche sociali, in particolare per quanto riguarda i fenomeni migratori. Il pensiero critico deve dunque svilupparsi su un duplice binario: da un lato, l’aggressione ai paradigmi culturali dell’intolleranza e dell’esclusione sociale; dall’altro, il confronto – non più procrastinabile – con i tabù della sinistra.
E’ necessario mostrare la possibilità di un modo diverso di pensare e osservare gli eventi e le dinamiche sociali, attraverso la pratica costante e l’assiduo lavoro di aggressione al pensiero unico.
Quante volte abbiamo ascoltato genitori preoccupati perché il proprio figlio è vittima di atti di bullismo. Ma quante poche volte abbiamo sentito genitori preoccupati perché il proprio figlio è un bullo!
E’ nelle piccole dinamiche sociali che si annida il germe patogeno dell’intolleranza, dell’indifferenza ai valori morali.
Quanto avvenuto il mese di maggio a Ponticelli - il pogrom, l’attacco incendiario, il saccheggio di un campo nomadi, ma soprattutto la disarmante solidarietà popolare con i carnefici anziché con le vittime di un’aggressione barbarica - non è il semplice risultato di una vergognosa campagna mediatica (che pure c’è stata), ma l’esito di un lungo processo in cui la cultura dell’esclusione sociale ha trovato tempo e modo di sedimentarsi, conquistare uno spazio e una dignità sociale.
A un punto tale, che oggi è possibile che un politico possa permettersi di parlare (anzi scrivere…e scripta manent!) – sempre a proposito delle classi ponte - di discriminazione transitoria positiva a favore dei minori immigrati.
E questo processo si è svolto sotto la spinta dei gutturali slogan della destra più becera, trovando solo la debole resistenza di una sinistra balbettante.
Una rinascita culturale, dunque. Che non è l’oziosa attività politica degli intellettuali, ma forza di rinnovamento, di cambiamento.
Sarebbe sufficiente valutare l’impatto, la forza trainante del lavoro di Roberto Saviano.
Luciano Canfora, nell’opera Critica della Retorica Democratica, scrive:
E’ il ceto intellettuale quello che fa funzionare i centri nevralgici del mondo egemone. E’ quel ceto che va conquistato alla critica. Urge una nuova critica dell’economia che spieghi ai ceti decisivi del primo mondo che sono anch’essi degli sfruttati. E che lo sono in primo luogo in quello che è da considerarsi il massimo dei beni: l’intelligenza. E’ dal cuore del sistema che verrà la nuova crisi: in un tempo lunghissimo e dopo una lunga ricerca. Non è importante esserci, è importante saperlo.
E’ dunque prioritario per una nuova forza di sinistra, produrre e contribuire a diffondere una cultura dell’inclusione sociale. “Cultura” nel senso più ampio, comprensivo di pensiero e prassi. Una cultura dell’intervento, della presenza, che si esprima attraverso l’azione sul territorio, il sostegno alle fasce più deboli della popolazione, in grado di radicarsi dove sembra non poter crescere nulla.
Tempo fa un mio collega, Nicola Albanese, faceva notare come nell’uso comune sia stato distorto il significato del termine “esclusivo”, stravolgendone la semantica al punto da attribuirgli una valenza positiva. Un locale esclusivo, ad esempio, è un locale di livello, frequentato soltanto dalla “gente migliore.
Noi pretendiamo, al contrario, di proporre e difendere una cultura dell’inclusione.
Noi vogliamo il rovesciamento delle categorie culturali dominanti: non ci importa niente – ma proprio niente! – di quanto impieghi il primo arrivato a tagliare il traguardo. A noi interessa in quanti riescono a raggiungerlo.
Inevitabile, dunque, nel patrimonio genetico di una nuova forza di sinistra, la riflessione profonda sulle regioni di una sconfitta storica, esito di un progressivo scollamento dalle forze sociali, dalla cittadinanza, dai luoghi di vita e lavoro. Soprattutto, dai luoghi del disagio.
Tuttavia, la disfatta dell’Arcobaleno è soltanto la punta di un iceberg, la parte visibile di una ferita apertasi nel 1989. Idealmente, è dai cocci del muro che si deve ricominciare a costruire.
Ciò di cui abbiamo bisogno è una sinistra con un progetto politico e culturale riconoscibile, non asservito agli umori del ceto medio o alle malinconie di irriducibili rivoluzionari.
Una sinistra in grado di proporsi attivamente nel dibattito culturale, di fronteggiare il pensiero unico e proporre una diversa e più scientifica lettura delle dinamiche sociali.
Una sinistra in grado di stare tra le persone, di crescere partendo dal basso, di rappresentare il disagio delle fasce più deboli di popolazione.
Nuova deve essere l’energia, la voglia di essere motore propulsore delle dinamiche di cambiamento, nuovo il desiderio di protagonismo politico e sociale.
Nuove devono essere le modalità di incontro con la cittadinanza, la qualità dell’impegno e della comunicazione.
Nuovi dovrebbero essere i volti, i nomi.
Nuove le parole d’ordine e, forse, i simboli.
Ciò che non deve cambiare, invece, è ciò che rende tale una forza di sinistra: le istanze progressiste, la matrice culturale, l’orizzonte etico, la scelta operativa.
Personalmente, individuo nel lessico utilizzato a suo tempo da Pizzorno, ovvero la dicotomia concettuale di “inclusione/esclusione”, la bussola ideale per l’orizzonte etico di una nuova sinistra.
Sinistra è inclusione, estensione della cittadinanza, partecipazione, articolo 3 della nostra Costituzione, universalità dei diritti, dignità sociale.
La storia della sinistra è soprattutto rivoluzione culturale; non quella di Mao, bensì quella del “rovesciamento” dei paradigmi. Quella che ha insegnato agli operai che non dovevano ringraziare i padroni per il fatto di lavorare.
Il coraggio, dunque, di un pensiero di rottura, che non asseconda gli umori dell’elettorato ma – se necessario – lo traumatizza.
Rovesciare i paradigmi culturali dominanti orientati all’esclusione sociale: questa deve essere la mission culturale di una nuova sinistra.
Prendiamo l’esempio delle “classi ponte”, la proposta leghista di separare i percorsi scolastici dei bambini extracomunitari da quelli italiani, fino all’acquisizione di un livello di conoscenza della lingua italiana tale da rendere possibile l’integrazione scolastica (traduzione: tale da non far perdere tempo ai nostri ragazzi).
Non ci siamo risparmiati nel contestare in ogni modo questo irricevibile e goffo tentativo di far passare una scelta di esclusione sociale per un tentativo di favorire l’integrazione degli studenti extracomunitari. Si è più volte ribadito come sia l’integrazione a favorire la conoscenza della lingua e non il contrario; come una scelta del genere sul lungo periodo produrrebbe antagonismo sociale e dunque maggiore insicurezza ecc…
Tuttavia, una forza di sinistra deve avere il coraggio di capovolgere radicalmente il punto di vista, in un’ottica decisa di inclusione sociale: anche i nostri ragazzi, in verità, hanno bisogno di imparare a integrarsi con gli immigrati. Le classi ponte rappresentano una discriminazione nei confronti degli extracomunitari, ma anche la privazione di un’opportunità di crescita intellettuale e morale per i nostri figli.
Non c’è nulla di scandaloso in questo concetto, è un’ottica di inclusione sociale, crescita morale, ciò che dovrebbe essere patrimonio irrinunciabile di una forza di sinistra.
Ovviamente, non sfugge la complessità delle dinamiche sociali, in particolare per quanto riguarda i fenomeni migratori. Il pensiero critico deve dunque svilupparsi su un duplice binario: da un lato, l’aggressione ai paradigmi culturali dell’intolleranza e dell’esclusione sociale; dall’altro, il confronto – non più procrastinabile – con i tabù della sinistra.
E’ necessario mostrare la possibilità di un modo diverso di pensare e osservare gli eventi e le dinamiche sociali, attraverso la pratica costante e l’assiduo lavoro di aggressione al pensiero unico.
Quante volte abbiamo ascoltato genitori preoccupati perché il proprio figlio è vittima di atti di bullismo. Ma quante poche volte abbiamo sentito genitori preoccupati perché il proprio figlio è un bullo!
E’ nelle piccole dinamiche sociali che si annida il germe patogeno dell’intolleranza, dell’indifferenza ai valori morali.
Quanto avvenuto il mese di maggio a Ponticelli - il pogrom, l’attacco incendiario, il saccheggio di un campo nomadi, ma soprattutto la disarmante solidarietà popolare con i carnefici anziché con le vittime di un’aggressione barbarica - non è il semplice risultato di una vergognosa campagna mediatica (che pure c’è stata), ma l’esito di un lungo processo in cui la cultura dell’esclusione sociale ha trovato tempo e modo di sedimentarsi, conquistare uno spazio e una dignità sociale.
A un punto tale, che oggi è possibile che un politico possa permettersi di parlare (anzi scrivere…e scripta manent!) – sempre a proposito delle classi ponte - di discriminazione transitoria positiva a favore dei minori immigrati.
E questo processo si è svolto sotto la spinta dei gutturali slogan della destra più becera, trovando solo la debole resistenza di una sinistra balbettante.
Una rinascita culturale, dunque. Che non è l’oziosa attività politica degli intellettuali, ma forza di rinnovamento, di cambiamento.
Sarebbe sufficiente valutare l’impatto, la forza trainante del lavoro di Roberto Saviano.
Luciano Canfora, nell’opera Critica della Retorica Democratica, scrive:
E’ il ceto intellettuale quello che fa funzionare i centri nevralgici del mondo egemone. E’ quel ceto che va conquistato alla critica. Urge una nuova critica dell’economia che spieghi ai ceti decisivi del primo mondo che sono anch’essi degli sfruttati. E che lo sono in primo luogo in quello che è da considerarsi il massimo dei beni: l’intelligenza. E’ dal cuore del sistema che verrà la nuova crisi: in un tempo lunghissimo e dopo una lunga ricerca. Non è importante esserci, è importante saperlo.
E’ dunque prioritario per una nuova forza di sinistra, produrre e contribuire a diffondere una cultura dell’inclusione sociale. “Cultura” nel senso più ampio, comprensivo di pensiero e prassi. Una cultura dell’intervento, della presenza, che si esprima attraverso l’azione sul territorio, il sostegno alle fasce più deboli della popolazione, in grado di radicarsi dove sembra non poter crescere nulla.
Tempo fa un mio collega, Nicola Albanese, faceva notare come nell’uso comune sia stato distorto il significato del termine “esclusivo”, stravolgendone la semantica al punto da attribuirgli una valenza positiva. Un locale esclusivo, ad esempio, è un locale di livello, frequentato soltanto dalla “gente migliore.
Noi pretendiamo, al contrario, di proporre e difendere una cultura dell’inclusione.
Noi vogliamo il rovesciamento delle categorie culturali dominanti: non ci importa niente – ma proprio niente! – di quanto impieghi il primo arrivato a tagliare il traguardo. A noi interessa in quanti riescono a raggiungerlo.
venerdì 21 novembre 2008
Sit-In Educatori Penitenziari
Allego la mia personalissima ricostruzione del Sit-In tenutosi il 13-11-2008 davanti a Camera dei Deputati e Senato, al fine di evidenziare la paradossale situazione dei 397 educatori penitenziari vincitori di un concorso bandito nel 2003.
Per ulteriori dettagli, visitare il sito: http://www.educatoripenitenziari.it/index.php
Sit In
Il 13 novembre 2008, il comitato “I Nuovi Educatori Penitenziari” realizza un sit-in di protesta davanti a Camera dei Deputati e Senato.
La causa è sacrosanta: siamo vincitori e idonei di un concorso bandito nel 2003, conclusosi soltanto nel giugno del corrente anno, e senza ancora nessuna certezza sui tempi di assunzione.
Si parla di essere chiamati “a scaglioni”, parte nel 2009 e parte nel 2010.
Insomma, nella migliore delle ipotesi, il conto complessivo sarà di 7 anni di attesa. Qualcuno deve aver rotto uno specchio…
Il comitato si è costituito poichè si è ritenuto che anche un anno in più possa fare la differenza; e poi – diciamolo pure – perché sulla scadenza del 2010 neanche metteremmo la mano sul fuoco…
Prosaicamente, qualcuno di noi fa riferimento ad una Legge di Murphy: “Se qualcosa può andar male, lo farà”.
E poi, questi benedetti fondi per assumerci ci sono. C’è la cassa delle ammende. Potremmo usare quelli, e poi tornare a riempirla con i fondi delle nostre assunzioni quando arriveranno (tanto al massimo si tratta del 2010, giusto?).
E allora…si va!
La mia giornata parte benissimo. Neanche esco di casa che vengo travolto da un’onda anomala e raggiungo la stazione centrale assieme ad un cumulo di detriti. Impresentabile, salgo sul treno ansioso di raggiungere i miei futuri colleghi.
A Roma, invece, splende il sole. Decido quindi di raggiungere a piedi Piazza Montecitorio, trotterellando allegramente per le vie del centro. Quando raggiungo il sit-in, riconosco subito la mia amica Laura. Provo a farle un gesto di saluto sollevando il braccio, ma è un attimo…il cielo si rannuvola, un tuono rompe il silenzio, la pioggia scroscia violentemente…devo averlo rotto io, quel famoso specchio, nel 2003. Ad ogni modo, abbasso rapidamente il braccio prima di essere accusato di aver comandato la pioggia.
Il sit-in è stato organizzato benissimo. C’è il gazebo con il materiale informativo, cartelli, striscioni, volantini, palloncini per attirare l’attenzione, la cassa delle ammende…; saluto Federico, venuto giù da Torino, e finalmente conosco di persona la nostra Presidentessa. Lina mi saluta con una stretta di mano vigorosa, mi riassume rapidamente quanto avvenuto fino a quel momento, con gli occhi che fanno scintille e promettono battaglia. Soprattutto, promettono e mantengono.
Finalmente incontro Marianna, Viviana, e altre persone che fino a qualche ora prima conoscevo soltanto come nick. E poi ci sono i mariti e fidanzati…venuti a dare man forte, a sostenere la battaglia.
Non siamo numerosi, ma non siamo per niente male.
C’è anche qualcuno che fa parte di un altro gruppo, quello che generosamente definiamo “l’altro comitato”. Viene recando seco un ramoscello d’ulivo, parla dell’importanza del nostro sit-in, del fatto che dovremmo essere tutti uniti, che l’unione fa la forza…tutto condivisibile. Che il ramoscello sia autentico o no, lo accettiamo: noi non abbiamo nulla da nascondere, e ben venga – sempre – chi condivide ciò che facciamo e vuole offrire un contributo.
Vuol dire che, nella città dei Figli della Lupa, accoglieremo un Figlio del Leopardo.
Il sit-in si svolge come una prova di resistenza: la pioggia comincia ad infliggere i primi danni al morale dei futuri educatori. Federico si arma di megafono e sfida intemperie e deputati, restituendo il sorriso e la forza a tutto il gruppo.
Arriva l’Onorevole Di Pietro. Anche lui sfida la pioggia armato di un miserrimo ombrellino.
Di Pietro parla e ascolta, circondato da un gruppo di educatori che quasi lo soffoca. Non tanto per lui, quanto per trovare riparo sotto il gazebo. L’onorevole fa un bagno di folla, chi è rimasto dietro un bagno e basta.
L’onorevole si trattiene a lungo assieme a noi, e promette di portare la questione in Parlamento. Ci invita a non demordere. Poi guarda la nostra Presidentessa e capisce che si tratta di una raccomandazione inutile.
Poco dopo, mentre io e il marito di Lina veniamo brutalmente buttati fuori da alcuni portoni in cui abbiamo cercato rifugio, arriva anche la Senatrice Baio.
Il pomeriggio, i superstiti si trasferiscono di fronte al senato. Una spesa rapida per mangiare qualcosa, un the per riscaldare le ossa, ed eccoci di nuovo in piena forma.
Ingaggio una lotta personale con il mio sigaro: zuppo d’acqua, non vuol saperne di accendersi. Ma non me la prendo: i medici mi hanno assicurato che respirare l’aria di Roma equivale a fumarsi un paio di sigari.
Veniamo a sapere dell’intervento della Baio, della solidarietà di Schifani…le notizie che porta Antonio mettono di buonumore.
Nessuno si aspettava di arrivare lì, e tornare a casa con il contratto di assunzione. Abbiamo in ogni caso ottenuto molto. Le cose si conquistano un passo alla volta, e questo è stato indiscutibilmente un passo avanti.
Ci salutiamo contenti di esserci stati, di esserci conosciuti e di esserci bagnati assieme…un onore!
Anche perché, come direbbe Federico:”siamo bagnati…non dei conigli bagnati!”
Per ulteriori dettagli, visitare il sito: http://www.educatoripenitenziari.it/index.php
Sit In
Il 13 novembre 2008, il comitato “I Nuovi Educatori Penitenziari” realizza un sit-in di protesta davanti a Camera dei Deputati e Senato.
La causa è sacrosanta: siamo vincitori e idonei di un concorso bandito nel 2003, conclusosi soltanto nel giugno del corrente anno, e senza ancora nessuna certezza sui tempi di assunzione.
Si parla di essere chiamati “a scaglioni”, parte nel 2009 e parte nel 2010.
Insomma, nella migliore delle ipotesi, il conto complessivo sarà di 7 anni di attesa. Qualcuno deve aver rotto uno specchio…
Il comitato si è costituito poichè si è ritenuto che anche un anno in più possa fare la differenza; e poi – diciamolo pure – perché sulla scadenza del 2010 neanche metteremmo la mano sul fuoco…
Prosaicamente, qualcuno di noi fa riferimento ad una Legge di Murphy: “Se qualcosa può andar male, lo farà”.
E poi, questi benedetti fondi per assumerci ci sono. C’è la cassa delle ammende. Potremmo usare quelli, e poi tornare a riempirla con i fondi delle nostre assunzioni quando arriveranno (tanto al massimo si tratta del 2010, giusto?).
E allora…si va!
La mia giornata parte benissimo. Neanche esco di casa che vengo travolto da un’onda anomala e raggiungo la stazione centrale assieme ad un cumulo di detriti. Impresentabile, salgo sul treno ansioso di raggiungere i miei futuri colleghi.
A Roma, invece, splende il sole. Decido quindi di raggiungere a piedi Piazza Montecitorio, trotterellando allegramente per le vie del centro. Quando raggiungo il sit-in, riconosco subito la mia amica Laura. Provo a farle un gesto di saluto sollevando il braccio, ma è un attimo…il cielo si rannuvola, un tuono rompe il silenzio, la pioggia scroscia violentemente…devo averlo rotto io, quel famoso specchio, nel 2003. Ad ogni modo, abbasso rapidamente il braccio prima di essere accusato di aver comandato la pioggia.
Il sit-in è stato organizzato benissimo. C’è il gazebo con il materiale informativo, cartelli, striscioni, volantini, palloncini per attirare l’attenzione, la cassa delle ammende…; saluto Federico, venuto giù da Torino, e finalmente conosco di persona la nostra Presidentessa. Lina mi saluta con una stretta di mano vigorosa, mi riassume rapidamente quanto avvenuto fino a quel momento, con gli occhi che fanno scintille e promettono battaglia. Soprattutto, promettono e mantengono.
Finalmente incontro Marianna, Viviana, e altre persone che fino a qualche ora prima conoscevo soltanto come nick. E poi ci sono i mariti e fidanzati…venuti a dare man forte, a sostenere la battaglia.
Non siamo numerosi, ma non siamo per niente male.
C’è anche qualcuno che fa parte di un altro gruppo, quello che generosamente definiamo “l’altro comitato”. Viene recando seco un ramoscello d’ulivo, parla dell’importanza del nostro sit-in, del fatto che dovremmo essere tutti uniti, che l’unione fa la forza…tutto condivisibile. Che il ramoscello sia autentico o no, lo accettiamo: noi non abbiamo nulla da nascondere, e ben venga – sempre – chi condivide ciò che facciamo e vuole offrire un contributo.
Vuol dire che, nella città dei Figli della Lupa, accoglieremo un Figlio del Leopardo.
Il sit-in si svolge come una prova di resistenza: la pioggia comincia ad infliggere i primi danni al morale dei futuri educatori. Federico si arma di megafono e sfida intemperie e deputati, restituendo il sorriso e la forza a tutto il gruppo.
Arriva l’Onorevole Di Pietro. Anche lui sfida la pioggia armato di un miserrimo ombrellino.
Di Pietro parla e ascolta, circondato da un gruppo di educatori che quasi lo soffoca. Non tanto per lui, quanto per trovare riparo sotto il gazebo. L’onorevole fa un bagno di folla, chi è rimasto dietro un bagno e basta.
L’onorevole si trattiene a lungo assieme a noi, e promette di portare la questione in Parlamento. Ci invita a non demordere. Poi guarda la nostra Presidentessa e capisce che si tratta di una raccomandazione inutile.
Poco dopo, mentre io e il marito di Lina veniamo brutalmente buttati fuori da alcuni portoni in cui abbiamo cercato rifugio, arriva anche la Senatrice Baio.
Il pomeriggio, i superstiti si trasferiscono di fronte al senato. Una spesa rapida per mangiare qualcosa, un the per riscaldare le ossa, ed eccoci di nuovo in piena forma.
Ingaggio una lotta personale con il mio sigaro: zuppo d’acqua, non vuol saperne di accendersi. Ma non me la prendo: i medici mi hanno assicurato che respirare l’aria di Roma equivale a fumarsi un paio di sigari.
Veniamo a sapere dell’intervento della Baio, della solidarietà di Schifani…le notizie che porta Antonio mettono di buonumore.
Nessuno si aspettava di arrivare lì, e tornare a casa con il contratto di assunzione. Abbiamo in ogni caso ottenuto molto. Le cose si conquistano un passo alla volta, e questo è stato indiscutibilmente un passo avanti.
Ci salutiamo contenti di esserci stati, di esserci conosciuti e di esserci bagnati assieme…un onore!
Anche perché, come direbbe Federico:”siamo bagnati…non dei conigli bagnati!”
giovedì 20 novembre 2008
Isteria politica
Ricordo bene le critiche impietose mosse all'impianto della Legge Gozzini, accusata di essere troppo elastica, distante dalle esigenze di sicurezza dei cittadini.
Ricordo bene anche gli strali contro l'indulto.
Ora, il Ministro Alfano propone di evitare del tutto il carcere, agli incensurati, per i reati per cui è prevista la reclusione fino a 4 anni.
Altro che Gozzini...altro che indulto!
Si può anche discutere nel merito questa proposta (che prevede lavori socialmente utili e messa alla prova e che, ad occhio e croce, riterrei accettabile per reati fino a due anni di condanna).
Quello che mi interessa evidenziare, tuttavia, è come - al di là degli slogan da caserma - quella carceraria sia una questione esplosiva che non può assolutamente essere risolta sparando idiozie. Con le idiozie si può arrivare al governo, non governare.
E poi...carcere per i clandestini...carcere per i clienti delle prostitute...carcere per chi butta per strada rifiuti ingombranti...ma niente carcere per reati fino a quattro anni.,.se non è isteria questa...
Ricordo bene anche gli strali contro l'indulto.
Ora, il Ministro Alfano propone di evitare del tutto il carcere, agli incensurati, per i reati per cui è prevista la reclusione fino a 4 anni.
Altro che Gozzini...altro che indulto!
Si può anche discutere nel merito questa proposta (che prevede lavori socialmente utili e messa alla prova e che, ad occhio e croce, riterrei accettabile per reati fino a due anni di condanna).
Quello che mi interessa evidenziare, tuttavia, è come - al di là degli slogan da caserma - quella carceraria sia una questione esplosiva che non può assolutamente essere risolta sparando idiozie. Con le idiozie si può arrivare al governo, non governare.
E poi...carcere per i clandestini...carcere per i clienti delle prostitute...carcere per chi butta per strada rifiuti ingombranti...ma niente carcere per reati fino a quattro anni.,.se non è isteria questa...
domenica 19 ottobre 2008
Classi per stranieri...
Riporto la mia risposta ad un intervento della Maestra Elvia, sul blog di Marco Rossi Doria (Link:
http://marcorossidoria.blogspot.com/2008/10/grazie-elvia.html):
E' vero, è un intervento emozionante. Ma soprattutto è lucido...logico...frutto di un pensiero maturo. Ma è inutile inseguire il governo sulle false piste che disegna per noi. Come, nel caso della Gelmini, si cerca di far passare una brutale operazione di "tagli" per una "riforma" - allo stesso modo - vogliono presentarci una piccola Apartheid per un'efficace azione finalizzata all'integrazione degli stranieri...Genitori egoisti (e ignoranti) da sempre si preoccupano che la presenza di disabili nelle aule rallenti il percorso di apprendimento dei propri figli. Figuriamoci poi degli stranieri che neanche conoscono la lingua...Magari, invece, 'sti ragazzi imparassero LORO a stare con disabili e immigrati...perchè siamo noi, in primis, ad avere qualche problema di "integrazione".
http://marcorossidoria.blogspot.com/2008/10/grazie-elvia.html):
E' vero, è un intervento emozionante. Ma soprattutto è lucido...logico...frutto di un pensiero maturo. Ma è inutile inseguire il governo sulle false piste che disegna per noi. Come, nel caso della Gelmini, si cerca di far passare una brutale operazione di "tagli" per una "riforma" - allo stesso modo - vogliono presentarci una piccola Apartheid per un'efficace azione finalizzata all'integrazione degli stranieri...Genitori egoisti (e ignoranti) da sempre si preoccupano che la presenza di disabili nelle aule rallenti il percorso di apprendimento dei propri figli. Figuriamoci poi degli stranieri che neanche conoscono la lingua...Magari, invece, 'sti ragazzi imparassero LORO a stare con disabili e immigrati...perchè siamo noi, in primis, ad avere qualche problema di "integrazione".
giovedì 16 ottobre 2008
Saviano
Piena solidarietà a questo eroe della scrittura; uno dei pochissimi casi in cui la penna si è davvero rivelata più potente della spada.
Ieri sera a Matrix la Meloni ha quasi voluto stigmatizzare la scelta di Saviano di lasciare l’Italia. Perché – diceva – i nostri ragazzi hanno bisogno di esempi; perché potrebbe dare il senso di una sconfitta, vedere che Saviano è costretto ad andare via…
Sciocchezze. Saviano è già un eroe (che gli piaccia o meno), non c’è alcuna necessità che si trasformi in un martire.
Non si può pretendere di avere un popolo di “Saviano”; io non avrei mai avuto il coraggio di sfidare le mafie come ha fatto lui.
Ma niente chiacchiere, non ho voglia di fare predicozzi o incensare questo autore.
Per quanto insignificante possa essere, voglio solo esprimere la mia solidarietà a Roberto Saviano.
Ieri sera a Matrix la Meloni ha quasi voluto stigmatizzare la scelta di Saviano di lasciare l’Italia. Perché – diceva – i nostri ragazzi hanno bisogno di esempi; perché potrebbe dare il senso di una sconfitta, vedere che Saviano è costretto ad andare via…
Sciocchezze. Saviano è già un eroe (che gli piaccia o meno), non c’è alcuna necessità che si trasformi in un martire.
Non si può pretendere di avere un popolo di “Saviano”; io non avrei mai avuto il coraggio di sfidare le mafie come ha fatto lui.
Ma niente chiacchiere, non ho voglia di fare predicozzi o incensare questo autore.
Per quanto insignificante possa essere, voglio solo esprimere la mia solidarietà a Roberto Saviano.
La Scienza del Papa...
Il Papa ha asserito che la Scienza non è in grado di elaborare principi etici.
Perché?
Forse perché la Scienza è conoscenza, e la conoscenza evidentemente non è in grado di elaborare principi etici.
La religione è “Rivelazione”, dunque i principi etici possono solo essere “rivelati”.
La Scienza è laica; dunque il laicismo non è in grado di elaborare principi etici.
Detto per inteso, la penso alla maniera opposta: la religione (intesa in senso confessionale) non è in grado di elaborare principi etici; la scienza si.
Ma non è la mia opinione ad essere motivo di interesse: io non sono il Papa, se mi affaccio ad una finestra a pontificare mi tirano ortaggi; se mi vesto con un lenzuolo bianco i bambini per le strade mi prendono a scozzettoni; se parlo male dei preservativi è solo perché quando li uso non sento niente.
E’ l’opinione del Papa, Benedetto XVI, ad essere motivo di interesse, poiché sottende ciò che da anni imputo alla Chiesa: la pretesa di avere il monopolio dell’etica, di poter stabilire ciò che è bene e ciò che è male. In sostanza: ciò che deve essere fatto, e ciò che non deve essere fatto.
Va bene la ricerca scientifica, va bene l’arte, va bene la filosofia…ma entro determinati limiti – limiti etici – stabiliti dall’unica entità deputata a “elaborare principi etici”: la Chiesa.
Perché?
Forse perché la Scienza è conoscenza, e la conoscenza evidentemente non è in grado di elaborare principi etici.
La religione è “Rivelazione”, dunque i principi etici possono solo essere “rivelati”.
La Scienza è laica; dunque il laicismo non è in grado di elaborare principi etici.
Detto per inteso, la penso alla maniera opposta: la religione (intesa in senso confessionale) non è in grado di elaborare principi etici; la scienza si.
Ma non è la mia opinione ad essere motivo di interesse: io non sono il Papa, se mi affaccio ad una finestra a pontificare mi tirano ortaggi; se mi vesto con un lenzuolo bianco i bambini per le strade mi prendono a scozzettoni; se parlo male dei preservativi è solo perché quando li uso non sento niente.
E’ l’opinione del Papa, Benedetto XVI, ad essere motivo di interesse, poiché sottende ciò che da anni imputo alla Chiesa: la pretesa di avere il monopolio dell’etica, di poter stabilire ciò che è bene e ciò che è male. In sostanza: ciò che deve essere fatto, e ciò che non deve essere fatto.
Va bene la ricerca scientifica, va bene l’arte, va bene la filosofia…ma entro determinati limiti – limiti etici – stabiliti dall’unica entità deputata a “elaborare principi etici”: la Chiesa.
sabato 13 settembre 2008
Sartori e Canfora sulla democrazia: libera interpretazione
Nell’immaginario comune democrazia è sinonimo di “uguaglianza, giustizia, libertà”.
L’uso fraudolento del termine ne ha ovviamente snaturato il senso; e di questo senso snaturato si riempiono la bocca e le tasche politici e intellettuali, lasciando a pochi eretici l’ingrato compito di additare le nudità dell’Imperatore (v., ad es., “Sudditi”, di Massimo Fini).
Ma per la maggior parte degli attori in campo nella quotidiana bagarre politica, la democrazia non si discute. Piuttosto ognuno accusa l’avversario di oltraggiarla, svuotarla di senso, aggredirla. Ognuno pesca dal mazzo una figura retorica e la mette sul tavolo. La sinistra prende l’uguaglianza, il centro-centro sinistra la giustizia, la destra stringe la presa sulla libertà.
Non sempre nella storia questi concetti hanno avuto ed hanno la stessa fortuna e forza evocativa. Oggi l’uguaglianza tira poco. Anzi, di fronte allo “spavento” per i movimenti migratori, i Rom, gli stupri di gruppo e le truppe di indultati, appare quasi come una minaccia. La sinistra, infatti, è fuori dal Parlamento.
La giustizia è già più efficace…permette infatti all’elettorato “moderato” del centro-centro sinistra di rivendicarla sia per difendersi dai Rom che per attaccare Berlusconi, per dare un calcio in culo ai lavavetri e uno a Dell’Utri. Il problema è che sono in troppi oggi a voler indossare il mantello di giustiziere, e il centro-centro sinistra rischia continuamente di farselo strappare di mano dalle truppe dell’antipolitica, pronte ad usarlo con ancora maggior vigore.
La destra possiede in questo momento l’arma più efficace. La libertà è un’idea dalla forza retorica impareggiabile. Perché, detta così, non significa niente. E’ un concetto vuoto, così come “uguaglianza” e “giustizia”. La ricetta del consenso impone di evitare eccessi di zelo. La finzione ideologica prevede ideali fumosi, in modo da lasciare al singolo la possibilità di cucirseli addosso. La “libertà” è perfetta. Ogni cittadino potrà immaginarla come la “propria libertà”. E chi vorrebbe andare contro la propria libertà? L’uguaglianza è interesse di chi è dal lato sbagliato dell’equazione. Ma ora ci sono gli immigrati, che non votano…non conviene più l’uguaglianza. In soffitta. Oggi vestiamo di libertà. E siamo noi ad essere nudi, non l’Imperatore.
Ma torniamo alla democrazia. In particolare, a due libri di cui ho recentemente completato la lettura: “La democrazia in trenta lezioni” di Giovanni Sartori e “Critica della retorica democratica” di Luciano Canfora.
Il primo testo non ha grosse pretese, nonostante il titolo a carattere particolarmente didattico. E’ un’opera divulgativa, riadattamento di una serie di “pillole” somministrate dal celeberrimo Professore in un programma televisivo. Trenta capitoli, dunque, per illustrare i concetti chiave per comprendere la “democrazia”. E per difenderla, giacché Sartori si prodiga di dare spazio anche alle critiche degli oppositori del dogma democratico. Ma, com’è naturale che sia, lo fa attraverso la propria penna, e dunque non può risultargli particolarmente difficile liquidare le varie obiezioni con poco più di un’alzata di spalle.
Ma il testo è scorrevole, limpido, utile quindi ad alfabetizzare chi è a digiuno sull’argomento.
Sartori prova subito a spaventare l’ignaro lettore, presentando con disinvoltura i paradossi della democrazia. Bobbio illustrava benissimo la duplice natura della democrazia come “mezzo” e “fine” allo stesso tempo. Sartori evidenzia come la democrazia sia contemporaneamente “governo del popolo” e “governo sul popolo”. Il potere è infatti una relazione, per cui un individuo x ha potere su un individuo y. Il professor Chiodi esprime attraverso una formuletta (D/S) la necessità di questa relazione: uno spazio per il Detentore del potere (D), uno per chi il potere lo subisce (S) e uno per i mezzi di esercizio e controllo del potere (/). A meno di non pensare ingenuamente che la democrazia rappresenti il superamento di questo rapporto, e quindi una totale coincidenza di D ed S (autogoverno del popolo), la spiegazione ci viene suggerita dal Professor Sartori: trasmissione rappresentativa del potere.
Quindi mettiamo in cassaforte la prima conquista: la democrazia, in una società complessa, è - e non può non essere - “rappresentativa”. Il popolo non governa dunque nella sua interezza, ma sceglie dei rappresentanti, i quali andranno ad occupare lo spazio “D”. Maliziosamente si potrebbe insinuare che in questo modo il popolo sceglie soltanto chi dovrà comandarli; ma la dialettica democratica è più complessa. I rappresentanti del popolo hanno un tempo a disposizione per esercitare il loro mandato, e convincere gli elettori a rinnovare loro la fiducia. Questa dipendenza del potere dalla legittimazione popolare, è uno degli elementi di garanzia del cittadino. Non oso intervenire sulla formula del Professor Chiodi, ma forse potremmo aggiungere un ulteriore spazio, quello attraverso il quale i “sudditi” condizionano il “potere”. Attraverso il voto e le altre forme di partecipazione che garantisce il sistema democratico. O, più semplicemente, lo spazio “/” andrebbe inteso in senso più dialettico, come luogo di esercizio del potere sia del Detentore che dei Sudditi.
Si evince da quanto detto, il ruolo fondamentale, all’interno di un sistema democratico, dell’opinione pubblica. Va da sé che l’opinione pubblica ha un senso se “libera”.
E’ una questione pregnante, invisa ai sostenitori della democrazia quando gradita ai suoi detrattori.
Ma prioritario, sia nel lavoro di Sartori quanto in quello di Canfora, è individuare chi occupi realmente lo spazio del Detentore. Qual è in confine tra democrazia e oligarchia?
Sartori esplora rapidamente il pensiero di grandi autori come Mosca, Dahl, Schumpeter, fino a sintetizzare il proprio in poche parole: la democrazia è effettivo governo della maggioranza se si sottopone alla regola maggioritaria. Un fatto di ingegneria politica, dunque, la capacità di organizzare il sistema delle decisioni intorno alla regola ereditata da John Locke.
Non vi è dunque un’oligarchia, bensì, come sostiene Dahl, una poliarchia, dove diversi gruppi di potere si alternano nel decidere delle “questioni fondamentali”, e la loro alternanza è la garanzia della partecipazione di tutta la cittadinanza, attraverso i suoi rappresentanti, alle decisioni importanti.
Il quadro che ne emerge non è troppo diverso da quello di un mercato, dove ognuno può acquistare, attraverso il voto, la propria quota di partecipazione. Purtroppo, una singola quota non serve a niente. All’imbonitore farà comodo venderne il più possibile, ma i singoli acquirenti non si ritroveranno un bel niente tra le mani.
Purtroppo molti parolai, e quasi nessun matematico si occupa di democrazia.
La democrazia in cui ogni voto “conta” è una favola per bambini; il voto, per avere peso, deve essere organizzato. La mia partecipazione passa inevitabilmente attraverso l’adesione a gruppi di pressione, così come richiede la dialettica interna ad una poliarchia.
Il testo di Canfora si presenta, sin dal titolo, con un approccio radicalmente opposto:”Critica della retorica democratica”. Si tratta di un testo agile, scorrevole, ma incisivo nell’aggredire i luoghi comuni su cui si fonda la cantilena democratica.
L’oggetto d’analisi è più ampio, rispetto al libro di Sartori; l’indagine si spinge fino alle ragioni storiche e attuali della crisi della sinistra, lasciando trasparire tuttavia ottimismo, fiducia in quel cambiamento che non potrà non avvenire.
Non si tratta dell’altro ritornello, ovvero quello della rivoluzione proletaria. Canfora sfugge con intelligenza e invidiabile leggerezza a luoghi comuni e pregiudizi ideologici.
Sin dalle prime pagine, l’autore segnala la doppiezza delle democrazie occidentali:
innanzitutto, l’ambiguità ideologica. Se le democrazie sono tali al loro interno, sostengono fascismo e dittatura un po’ ovunque per il mondo, rivelando una natura tutt’altro che refrattaria al ricorso alla violenza e all’oppressione. Come saggiamente osservava Thomas Mann, la reale identità di un sistema politico andrebbe misurata su scala planetaria, non nazionale.
In secondo luogo, Canfora svela l’ipocrisia dell’ideologia del consenso. L’elettore infatti non sceglie in assoluto, ma tra una serie di opzioni, soprattutto se ha interesse ad esprimere un “voto utile”. E il voto utile, in tutte le democrazie occidentali, converge verso il centro.
Dunque, viviamo in un “sistema misto”, formato da democrazia (poca) e oligarchia (molta). Questo sistema, infatti, combina il principio elettorale (istanza democratica) con la realtà, opportunamente garantita, della prevalenza dei ceti medio-alti.
E’ sufficiente guardare un po’ in casa nostra. Basti pensare alla censura; i personaggi più temuti non sono gli estremisti, ma quelli in grado di “aggredire” culturalmente il centro. Coloro che possono influenzare il vero ago della bilancia.
Il risultato è l’emarginazione dei ceti meno competitivi e il drastico ridimensionamento della loro rappresentanza.
La democrazia, dunque, non può essere analizzata “in abstracto”, ma nelle sue declinazioni storiche, nella sua concretezza. Le democrazie occidentali sono un sistema di governo che prevede l’alternarsi al potere di rappresentanti del ceto medio. Cambiano dunque i gestori del potere, ma non gli interessi.
Si tratta di poliarchia, come vuole Sartori (o meglio Dahl…), se guardiamo ai “gruppi di potere”. Parliamo invece di oligarchia, come più correttamente – a mio avviso – sostiene Canfora, se guardiamo agli interessi.
La democrazia, a differenza di tutte le forme di governo che l’hanno preceduta, prevede – almeno sul piano teorico - un’assoluta coincidenza dei fini cui ambisce, e i mezzi attraverso cui intende perseguirli. Un cerchio perfetto, un assoluto, in cui il cambiamento è ridotto a mero assestamento. La democrazia, apparentemente, non può essere superata.
E probabilmente, da un punto di vista politico, è davvero così. Canfora affida la speranza nel cambiamento alla cultura, alle intelligenze.
Ma la democrazia è un Leviatano che fagocita qualunque cosa, anche il dissenso, anche la produzione culturale dei suoi “nemici”. Il capitalista pubblica i libri dei suoi detrattori, ed entrambi si arricchiscono. L’interesse, come dicevamo, è lo stesso…nulla cambia all’interno della struttura del Leviatano. Al massimo, come già scritto, è possibile parlare di “assestamento”.
Ma la cultura cui fa riferimento Canfora è un’altra cosa; lo scrittore rivolge la speranza a quelle opere che sono in grado di realizzare rivoluzioni copernicane, di cambiare il modo in cui l’uomo guarda al mondo. Opere come “Il Capitale” di Marx o “L’evoluzione della specie” di Darwin, che hanno segnato un punto di non ritorno nella storia culturale dell’umanità.
Pensieri di forza e capacità rivoluzionaria immensa, in grado di rovesciare lo stomaco dell’ingordo Leviatano.
Pensieri in grado di intervenire nello spazio “/”, e offrire una nuova difesa contro il più potente degli strumenti di dominio della demo-oligarchia: la finzione ideologica.
L’uso fraudolento del termine ne ha ovviamente snaturato il senso; e di questo senso snaturato si riempiono la bocca e le tasche politici e intellettuali, lasciando a pochi eretici l’ingrato compito di additare le nudità dell’Imperatore (v., ad es., “Sudditi”, di Massimo Fini).
Ma per la maggior parte degli attori in campo nella quotidiana bagarre politica, la democrazia non si discute. Piuttosto ognuno accusa l’avversario di oltraggiarla, svuotarla di senso, aggredirla. Ognuno pesca dal mazzo una figura retorica e la mette sul tavolo. La sinistra prende l’uguaglianza, il centro-centro sinistra la giustizia, la destra stringe la presa sulla libertà.
Non sempre nella storia questi concetti hanno avuto ed hanno la stessa fortuna e forza evocativa. Oggi l’uguaglianza tira poco. Anzi, di fronte allo “spavento” per i movimenti migratori, i Rom, gli stupri di gruppo e le truppe di indultati, appare quasi come una minaccia. La sinistra, infatti, è fuori dal Parlamento.
La giustizia è già più efficace…permette infatti all’elettorato “moderato” del centro-centro sinistra di rivendicarla sia per difendersi dai Rom che per attaccare Berlusconi, per dare un calcio in culo ai lavavetri e uno a Dell’Utri. Il problema è che sono in troppi oggi a voler indossare il mantello di giustiziere, e il centro-centro sinistra rischia continuamente di farselo strappare di mano dalle truppe dell’antipolitica, pronte ad usarlo con ancora maggior vigore.
La destra possiede in questo momento l’arma più efficace. La libertà è un’idea dalla forza retorica impareggiabile. Perché, detta così, non significa niente. E’ un concetto vuoto, così come “uguaglianza” e “giustizia”. La ricetta del consenso impone di evitare eccessi di zelo. La finzione ideologica prevede ideali fumosi, in modo da lasciare al singolo la possibilità di cucirseli addosso. La “libertà” è perfetta. Ogni cittadino potrà immaginarla come la “propria libertà”. E chi vorrebbe andare contro la propria libertà? L’uguaglianza è interesse di chi è dal lato sbagliato dell’equazione. Ma ora ci sono gli immigrati, che non votano…non conviene più l’uguaglianza. In soffitta. Oggi vestiamo di libertà. E siamo noi ad essere nudi, non l’Imperatore.
Ma torniamo alla democrazia. In particolare, a due libri di cui ho recentemente completato la lettura: “La democrazia in trenta lezioni” di Giovanni Sartori e “Critica della retorica democratica” di Luciano Canfora.
Il primo testo non ha grosse pretese, nonostante il titolo a carattere particolarmente didattico. E’ un’opera divulgativa, riadattamento di una serie di “pillole” somministrate dal celeberrimo Professore in un programma televisivo. Trenta capitoli, dunque, per illustrare i concetti chiave per comprendere la “democrazia”. E per difenderla, giacché Sartori si prodiga di dare spazio anche alle critiche degli oppositori del dogma democratico. Ma, com’è naturale che sia, lo fa attraverso la propria penna, e dunque non può risultargli particolarmente difficile liquidare le varie obiezioni con poco più di un’alzata di spalle.
Ma il testo è scorrevole, limpido, utile quindi ad alfabetizzare chi è a digiuno sull’argomento.
Sartori prova subito a spaventare l’ignaro lettore, presentando con disinvoltura i paradossi della democrazia. Bobbio illustrava benissimo la duplice natura della democrazia come “mezzo” e “fine” allo stesso tempo. Sartori evidenzia come la democrazia sia contemporaneamente “governo del popolo” e “governo sul popolo”. Il potere è infatti una relazione, per cui un individuo x ha potere su un individuo y. Il professor Chiodi esprime attraverso una formuletta (D/S) la necessità di questa relazione: uno spazio per il Detentore del potere (D), uno per chi il potere lo subisce (S) e uno per i mezzi di esercizio e controllo del potere (/). A meno di non pensare ingenuamente che la democrazia rappresenti il superamento di questo rapporto, e quindi una totale coincidenza di D ed S (autogoverno del popolo), la spiegazione ci viene suggerita dal Professor Sartori: trasmissione rappresentativa del potere.
Quindi mettiamo in cassaforte la prima conquista: la democrazia, in una società complessa, è - e non può non essere - “rappresentativa”. Il popolo non governa dunque nella sua interezza, ma sceglie dei rappresentanti, i quali andranno ad occupare lo spazio “D”. Maliziosamente si potrebbe insinuare che in questo modo il popolo sceglie soltanto chi dovrà comandarli; ma la dialettica democratica è più complessa. I rappresentanti del popolo hanno un tempo a disposizione per esercitare il loro mandato, e convincere gli elettori a rinnovare loro la fiducia. Questa dipendenza del potere dalla legittimazione popolare, è uno degli elementi di garanzia del cittadino. Non oso intervenire sulla formula del Professor Chiodi, ma forse potremmo aggiungere un ulteriore spazio, quello attraverso il quale i “sudditi” condizionano il “potere”. Attraverso il voto e le altre forme di partecipazione che garantisce il sistema democratico. O, più semplicemente, lo spazio “/” andrebbe inteso in senso più dialettico, come luogo di esercizio del potere sia del Detentore che dei Sudditi.
Si evince da quanto detto, il ruolo fondamentale, all’interno di un sistema democratico, dell’opinione pubblica. Va da sé che l’opinione pubblica ha un senso se “libera”.
E’ una questione pregnante, invisa ai sostenitori della democrazia quando gradita ai suoi detrattori.
Ma prioritario, sia nel lavoro di Sartori quanto in quello di Canfora, è individuare chi occupi realmente lo spazio del Detentore. Qual è in confine tra democrazia e oligarchia?
Sartori esplora rapidamente il pensiero di grandi autori come Mosca, Dahl, Schumpeter, fino a sintetizzare il proprio in poche parole: la democrazia è effettivo governo della maggioranza se si sottopone alla regola maggioritaria. Un fatto di ingegneria politica, dunque, la capacità di organizzare il sistema delle decisioni intorno alla regola ereditata da John Locke.
Non vi è dunque un’oligarchia, bensì, come sostiene Dahl, una poliarchia, dove diversi gruppi di potere si alternano nel decidere delle “questioni fondamentali”, e la loro alternanza è la garanzia della partecipazione di tutta la cittadinanza, attraverso i suoi rappresentanti, alle decisioni importanti.
Il quadro che ne emerge non è troppo diverso da quello di un mercato, dove ognuno può acquistare, attraverso il voto, la propria quota di partecipazione. Purtroppo, una singola quota non serve a niente. All’imbonitore farà comodo venderne il più possibile, ma i singoli acquirenti non si ritroveranno un bel niente tra le mani.
Purtroppo molti parolai, e quasi nessun matematico si occupa di democrazia.
La democrazia in cui ogni voto “conta” è una favola per bambini; il voto, per avere peso, deve essere organizzato. La mia partecipazione passa inevitabilmente attraverso l’adesione a gruppi di pressione, così come richiede la dialettica interna ad una poliarchia.
Il testo di Canfora si presenta, sin dal titolo, con un approccio radicalmente opposto:”Critica della retorica democratica”. Si tratta di un testo agile, scorrevole, ma incisivo nell’aggredire i luoghi comuni su cui si fonda la cantilena democratica.
L’oggetto d’analisi è più ampio, rispetto al libro di Sartori; l’indagine si spinge fino alle ragioni storiche e attuali della crisi della sinistra, lasciando trasparire tuttavia ottimismo, fiducia in quel cambiamento che non potrà non avvenire.
Non si tratta dell’altro ritornello, ovvero quello della rivoluzione proletaria. Canfora sfugge con intelligenza e invidiabile leggerezza a luoghi comuni e pregiudizi ideologici.
Sin dalle prime pagine, l’autore segnala la doppiezza delle democrazie occidentali:
innanzitutto, l’ambiguità ideologica. Se le democrazie sono tali al loro interno, sostengono fascismo e dittatura un po’ ovunque per il mondo, rivelando una natura tutt’altro che refrattaria al ricorso alla violenza e all’oppressione. Come saggiamente osservava Thomas Mann, la reale identità di un sistema politico andrebbe misurata su scala planetaria, non nazionale.
In secondo luogo, Canfora svela l’ipocrisia dell’ideologia del consenso. L’elettore infatti non sceglie in assoluto, ma tra una serie di opzioni, soprattutto se ha interesse ad esprimere un “voto utile”. E il voto utile, in tutte le democrazie occidentali, converge verso il centro.
Dunque, viviamo in un “sistema misto”, formato da democrazia (poca) e oligarchia (molta). Questo sistema, infatti, combina il principio elettorale (istanza democratica) con la realtà, opportunamente garantita, della prevalenza dei ceti medio-alti.
E’ sufficiente guardare un po’ in casa nostra. Basti pensare alla censura; i personaggi più temuti non sono gli estremisti, ma quelli in grado di “aggredire” culturalmente il centro. Coloro che possono influenzare il vero ago della bilancia.
Il risultato è l’emarginazione dei ceti meno competitivi e il drastico ridimensionamento della loro rappresentanza.
La democrazia, dunque, non può essere analizzata “in abstracto”, ma nelle sue declinazioni storiche, nella sua concretezza. Le democrazie occidentali sono un sistema di governo che prevede l’alternarsi al potere di rappresentanti del ceto medio. Cambiano dunque i gestori del potere, ma non gli interessi.
Si tratta di poliarchia, come vuole Sartori (o meglio Dahl…), se guardiamo ai “gruppi di potere”. Parliamo invece di oligarchia, come più correttamente – a mio avviso – sostiene Canfora, se guardiamo agli interessi.
La democrazia, a differenza di tutte le forme di governo che l’hanno preceduta, prevede – almeno sul piano teorico - un’assoluta coincidenza dei fini cui ambisce, e i mezzi attraverso cui intende perseguirli. Un cerchio perfetto, un assoluto, in cui il cambiamento è ridotto a mero assestamento. La democrazia, apparentemente, non può essere superata.
E probabilmente, da un punto di vista politico, è davvero così. Canfora affida la speranza nel cambiamento alla cultura, alle intelligenze.
Ma la democrazia è un Leviatano che fagocita qualunque cosa, anche il dissenso, anche la produzione culturale dei suoi “nemici”. Il capitalista pubblica i libri dei suoi detrattori, ed entrambi si arricchiscono. L’interesse, come dicevamo, è lo stesso…nulla cambia all’interno della struttura del Leviatano. Al massimo, come già scritto, è possibile parlare di “assestamento”.
Ma la cultura cui fa riferimento Canfora è un’altra cosa; lo scrittore rivolge la speranza a quelle opere che sono in grado di realizzare rivoluzioni copernicane, di cambiare il modo in cui l’uomo guarda al mondo. Opere come “Il Capitale” di Marx o “L’evoluzione della specie” di Darwin, che hanno segnato un punto di non ritorno nella storia culturale dell’umanità.
Pensieri di forza e capacità rivoluzionaria immensa, in grado di rovesciare lo stomaco dell’ingordo Leviatano.
Pensieri in grado di intervenire nello spazio “/”, e offrire una nuova difesa contro il più potente degli strumenti di dominio della demo-oligarchia: la finzione ideologica.
mercoledì 27 agosto 2008
Giustizia: finiamola con questa truffa della "realtà percepita"
di Domenico De Masi
Corriere della Sera, 26 agosto 2008
Questa faccenda della sicurezza rappresenta un argomento con il quale siamo stati presi in giro - da destra e da sinistra - molto più di quanto avremmo dovuto tollerare. Chi sta all’opposizione, sostiene che viviamo in un turbine di crescente violenza; chi sta al potere, sostiene che godiamo della massima tranquillità.
Appena l’opposizione diventa maggioranza, subito i pareri spudoratamente si rovesciano. Sia per la destra che per la sinistra, i dati reali non contano: conta la capacità di creare artatamente sensazioni diffuse e infondate, come se fossimo un popolo di imbecilli.
In effetti è sorprendente che questo popolo più studia e viaggia, più diventa vulnerabile alla manipolazione. Questi politici - personcine alle quali, negli anni di De Gasperi e di La Malfa (quello vero) non si sarebbe affidata neppure la portineria del Palazzo - ora dal Palazzo decidono il nostro futuro non in base a fatti accertati, e ce lo impongono per mezzo di supporti mediatici che consentono loro di contrabbandare il nero per bianco e, il giorno successivo, il bianco per nero.
Nel caso della sicurezza, non gli è bastato manipolare smaccatamente i dati: hanno anche inventato di sana pianta la categoria della "realtà percepita", secondo cui non conta quante persone vengono realmente stuprate e da chi. Quel che conta è la quantità di paura collettiva che, in base a quel determinato stupro, si riesce a indurre nelle masse.
Stessa cosa vale per la crisi economica. Andate a Cortina o in Costa Smeralda, dove si raggruma il fior fiore dei miliardari: dai loro discorsi ricaverete che essi "si percepiscono" come pezzenti, appezzentiti dalle tasse esose e dallo Stato invadente.
Più di due secoli fa, proprio per combattere la pericolosissima categoria della "realtà percepita", contrapponendole la realtà scientificamente accertata, Diderot e Voltaire elaborarono il paradigma illuminista. Di che cosa si tratta? Secondo Kant, si tratta della "uscita dell’uomo dalla minorità che va imputata a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Pigrizia e viltà sono le cause per le quali una gran parte degli uomini di buon grado rimangono minorenni per il resto della propria vita; per questo è così facile ad altri erigersi a loro tutori".
Basta, dunque, con questa truffa della "realtà percepita". È ora di liberarsi - criticamente e razionalmente - dai pregiudizi indotti e dai dogmi imposti.
Corriere della Sera, 26 agosto 2008
Questa faccenda della sicurezza rappresenta un argomento con il quale siamo stati presi in giro - da destra e da sinistra - molto più di quanto avremmo dovuto tollerare. Chi sta all’opposizione, sostiene che viviamo in un turbine di crescente violenza; chi sta al potere, sostiene che godiamo della massima tranquillità.
Appena l’opposizione diventa maggioranza, subito i pareri spudoratamente si rovesciano. Sia per la destra che per la sinistra, i dati reali non contano: conta la capacità di creare artatamente sensazioni diffuse e infondate, come se fossimo un popolo di imbecilli.
In effetti è sorprendente che questo popolo più studia e viaggia, più diventa vulnerabile alla manipolazione. Questi politici - personcine alle quali, negli anni di De Gasperi e di La Malfa (quello vero) non si sarebbe affidata neppure la portineria del Palazzo - ora dal Palazzo decidono il nostro futuro non in base a fatti accertati, e ce lo impongono per mezzo di supporti mediatici che consentono loro di contrabbandare il nero per bianco e, il giorno successivo, il bianco per nero.
Nel caso della sicurezza, non gli è bastato manipolare smaccatamente i dati: hanno anche inventato di sana pianta la categoria della "realtà percepita", secondo cui non conta quante persone vengono realmente stuprate e da chi. Quel che conta è la quantità di paura collettiva che, in base a quel determinato stupro, si riesce a indurre nelle masse.
Stessa cosa vale per la crisi economica. Andate a Cortina o in Costa Smeralda, dove si raggruma il fior fiore dei miliardari: dai loro discorsi ricaverete che essi "si percepiscono" come pezzenti, appezzentiti dalle tasse esose e dallo Stato invadente.
Più di due secoli fa, proprio per combattere la pericolosissima categoria della "realtà percepita", contrapponendole la realtà scientificamente accertata, Diderot e Voltaire elaborarono il paradigma illuminista. Di che cosa si tratta? Secondo Kant, si tratta della "uscita dell’uomo dalla minorità che va imputata a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Pigrizia e viltà sono le cause per le quali una gran parte degli uomini di buon grado rimangono minorenni per il resto della propria vita; per questo è così facile ad altri erigersi a loro tutori".
Basta, dunque, con questa truffa della "realtà percepita". È ora di liberarsi - criticamente e razionalmente - dai pregiudizi indotti e dai dogmi imposti.
sabato 9 agosto 2008
Quelli che "creano insicurezza". Non siamo solo delinquenti dell'Est
La colpa più grave, che noi delinquenti stranieri abbiamo, è quella di spingere un intero popolo, quello italiano, a trovare rifugio in governi autoritari che non riescono tanto a combattere noi, quanto a togliere diritti e libertà ai loro stessi elettori
di Elton Kalica
Discutere oggi in Italia con chi chiede più espulsioni per gli stranieri pare difficile, dato che sono più o meno d’accordo in tanti. Da ogni parte provengono posizioni intransigenti che a molti stranieri e anche a molti cittadini italiani incutono paura, perché fanno pensare a un ritorno agli anni bui del razzismo. Ma io credo che si possa cercare sempre di ragionare, e far ragionare: basta riuscire a mettere per un attimo da parte questo provvedimento così “drastico e irreparabile” che è l’espulsione.
La strada più semplice sembra ovviamente quella di eliminare il problema, e cioè richiudere i confini e bloccare la circolazione delle persone che vengono dai paesi dell’Est europeo. Però, anche ammettendo che questa sia una soluzione che funzioni, e cioè che riesca a bloccare i flussi dei delinquenti provenienti da quei paesi, bisogna tenere sempre in mente che quelle persone, se non vedranno cambiare le condizioni in cui vivono a casa loro, se non si creeranno per loro prospettive di miglioramento, continueranno a voler scappare e a venire in Italia, anche con la prospettiva di restare ingabbiati nella clandestinità: una condizione di vita questa che, sappiamo, porta a vivere alla giornata e spesso spinge a delinquere.
Io sono albanese e nel 1995, all’età di diciannove anni, sono emigrato in Italia seguendo alcuni miei coetanei che scappavano non solo perché convinti che qui ci fosse una gigantesca Hollywood, ma soprattutto perché, in quei primi anni di transizione da un regime comunista a un sistema liberista, le riforme economiche e la rapida privatizzazione avevano portato al licenziamento dei nostri genitori, che non riuscivano più a garantirci nemmeno i pasti quotidiani. Ma oggi la situazione non è tanto diversa nel mio Paese, e non c’è da stare tranquilli.
Sono più di dieci anni che sono in carcere e per questo non so come si vive fuori. Tuttavia mi basta ritornare con la memoria agli anni in cui io stesso vivevo clandestinamente per immaginare il clima. E qui devo aprire un altro capitolo, che è quello della criminalità straniera, sempre più colpevole del malessere dei cittadini italiani, dell’odio e della paura in cui sono costretti a vivere gli italiani: ma la colpa più grave che noi delinquenti stranieri abbiamo è quella di spingere un intero popolo a trovare rifugio in governi autoritari che non riescono tanto a combattere noi, quanto a togliere diritti e libertà ai loro stessi elettori.
Io sostengo che la criminalità straniera non è assolutamente più crudele di quella italiana, però ho sempre saputo che è capace di fare più danni, nel senso che il delinquente italiano dedito ai furti e agli scippi, o al traffico di droga, è spesso un “cacciatore” molto attento, che ruba il necessario per non lasciarci lo zampino, e quando ha svaligiato un appartamento o fatto una rapina, per lui la giornata di “lavoro” è finita. Porta il guadagno a casa e rimane con i propri figli. In questi anni ho conosciuto parecchi criminali italiani e dai loro racconti di malavita ho capito che loro per lo più non sono ingordi, anzi, spesso conducono una seconda vita “regolare”, tranquilla, senza mai eccedere. Mentre gli stranieri, che vivono di furti o scippi, nella maggior parte dei casi non hanno un ambito familiare che li tenga sotto controllo, obbligando ad una facciata di normalità anche il più grande delinquente, e hanno invece una specie di voracità che ha origine anche nella storia dei loro Paesi.
Quindi spesso gli stranieri, anche se svaligiano un appartamento e il colpo si rivela cospicuo, oppure se scippano un anziano che ha appena ritirato la pensione, non hanno una famiglia tranquilla da cui ritornare alla sera, quindi ritornano in strada a trovare un’altra casa con la luce spenta da svuotare, oppure una anziana da scippare. E non si fermano, ma vanno avanti per settimane, per mesi. Ecco perché ci sono sempre più reati di questo tipo, è in ragione di questa voracità che la maggior parte di loro finisce in carcere con una montagna di anni di galera da fare.
Non si può parlare di criminalità dell’Est dimenticandosi di come si vive oggi in quei Paesi
In Italia è diventata ormai una convinzione generale quella che i Paesi dell’Est, con l’Albania in testa, producano continuamente delinquenti. Quando parlo di legalità racconto spesso del primo bar privato aperto a Tirana, che il padrone ha chiamato “Bar Berlusconi”. Faccio questo perché ho visto come passare così bruscamente dai modelli marxisti-leninisti ai dogmi berlusconiani sulla libertà ha confuso molti adulti in quegli anni, ma soprattutto questo cambiamento ha scombussolato i più giovani. Il modello economico adottato oggi dall’Albania, nell’illusione che la transizione all’economia di mercato possa essere eseguita d’un colpo, ha portato al disfacimento dell’apparato statale e conseguentemente alla distruzione della coesione sociale, alla perdita di ogni senso di legalità da parte di molti cittadini, alla radicalizzazione dell’ineguaglianza e alla discriminazione delle persone, che all’improvviso hanno perso anche quei diritti precedentemente garantiti. E l’Occidente ha le sue responsabilità rispetto a questo disastro.
La realtà è che oggi l’Europa si trova a dover gestire flussi di persone che sono cresciute in un clima di cambiamento, dove veniva esaltato il dio denaro e il mondo continuava ad essere descritto come una giungla dove non c’è amore per il prossimo, ma sopravvive chi è furbo e individualista. Io ho finito il liceo nel 1994 e ricordo che in quel periodo, se qualche secchione parlava ancora di uguaglianza, di solidarietà, di pacifismo, di diritti sociali e culturali, veniva zittito e accusato di essere un comunista o uno stalinista.
Non sono un nostalgico del passato, però non si può parlare di criminalità dell’Est dimenticandosi di come si vive oggi in quei Paesi. Se oggi l’Occidente deve affrontare la pazzia della criminalità dell’Est, non sta facendo altro che raccogliere i frutti prodotti dall’albero delle menzogne che così astutamente ha piantato per cinquant’anni, utilizzando i media e ogni altro mezzo di comunicazione per convincere chi viveva nei paesi socialisti che solo il liberismo portava benessere. Invece, un liberismo sfrenato e una specie di democrazia introdotta a una velocità vertiginosa di fatto hanno causato una massiccia disoccupazione, con una conseguente emigrazione di massa, nonché una catena di effetti disastrosi sulla ridistribuzione del reddito e della ricchezza.
Al giorno d’oggi, nessuno sa più cosa dire alle persone che vengono qui in Italia sicure di trovare il paradiso proiettato nel loro immaginario dalla televisione, fatto di ville con piscina, di macchine costose e di belle donne. Chi ha sostenuto per anni che i comunisti mangiavano i bambini, oggi non sa come spiegare ai romeni e agli albanesi che in Italia ci sono sì delle leggi da rispettare, ma le leggi non valgono più quando devi andare a lavorare per dieci ore, in nero, magari sotto un padrone che viaggia in Ferrari e va a prostitute straniere. Nessuno sa come far capire agli immigrati confusi che qui si è liberi di sperare, di parlare, ma per mangiare, per vestirsi e per avere una casa ci vogliono i soldi. E se poi qualcuno, per avere la Ferrari, la villa e le donne viste in televisione, decide di andare a rubare o a sfruttare, non basta che lo mettano subito in galera, gli devono far prendere anche condanne spaventosamente alte, e poi, quando ha finito la pena, lo espellono dall’Unione europea per dieci anni.
La parola “espulsione” ricorda a tutti che non viviamo affatto in un grande villaggio globale
Se da un lato ci sono alcuni stranieri idioti che vengono in Italia e pretendono di vivere una vita da film, dall’altra parte ci sono anche dei “bravi” politici, degli “ingenui” giornalisti e degli “indignati” delinquenti locali che non solo non sanno fare un ragionamento responsabile su questo, ma vogliono usare questo fenomeno per coprire altri problemi più grandi, vogliono diffondere paura nelle persone in modo che la gente, spaventata, si dimentichi della povertà in cui vive e dica magari: “Chi se ne frega di quel che succede dei miei risparmi, dei prezzi alti e degli sprechi! proteggetemi dagli stranieri”.
È assurdo come le vittime del crollo del socialismo reale non siamo stati soltanto noi, poiché ho l’impressione che gli stessi furbi che prima hanno ingannato noi dicendo che qui era tutto Beverly Hills, adesso ingannano voi dicendo che noi siamo tutti tagliagole. E allora, diffondendo paura e odio, la frase che echeggia ovunque è “ci vuole il pugno duro”, che poi si risolve nella richiesta di espulsioni immediate e massicce.
“Espulsione” però è una brutta parola, che fa male non solo a noi ma a tutti, perché ricorda alle persone che esiste un confine nazionale e che non viviamo in un grande villaggio globale, ma che gli italiani hanno delle grandi mura che delimitano il proprio Paese. Espulsione è una parola che non indica solo l’atto di prendere una persona per l’orecchio e allontanarla dal Paese, ma che tratteggia con minuziosità anche una linea di confine che separa gli italiani dal resto del mondo, e da lì il passo è breve per arrivare a pensare che qualsiasi cosa venga da fuori non può essere che il Male. Mi domando soltanto se sia un bene per gli italiani tornare a costruire confini e a erigere muri. Mi domando se poter dare liberamente la caccia agli stranieri non significhi invece ritornare ad aumentare anche il controllo sui cittadini italiani stessi. Mi domando se questi confini, invece di difendere dagli stranieri, non diventino delle gabbie per gli italiani stessi.
Intanto, oggi tutti discutono sull’argomento “espulsioni”, e per fortuna c’è ancora una contrapposizione tra chi è d’accordo e chi no. Ma io intravedo una cosa molto grave in ciò che questo dibattito produce: nessuno si accorge che si sta radicando nella mentalità di una nazione intera l’esistenza di una linea separatrice, di un confine ideale che divide il dentro dal fuori: “dentro” ci sono quelli buoni, quelli civili, quelli ricchi, quelli vincenti, una razza superiore, mentre fuori si sono i cattivi, i barbari, i poveri, i perdenti, una razza inferiore. Ed è una cosa che non si può prendere alla leggera, perché questo atteggiamento potrebbe continuare a radicarsi nelle menti e nelle coscienze di tutte le persone, anche nelle generazioni future, se non si comincia a pensare a soluzioni diverse, che non discriminino e che non facciano dello straniero il male assoluto che si cura soltanto con l’espulsione.
Dunque io penso che da un lato bisogna avere fiducia nell’Unione europea, che con i suoi parametri e con le condizioni che pone ai Paesi membri, dovrebbe spingere anche i Paesi dell’Est ad un livello di benessere comparabile a quello presente nel resto dell’Europa, e allora saranno sempre meno i delinquenti romeni o slavi che verranno in Italia, se non altro perché avranno da rubare a casa loro.
Mi rendo conto però che, per quanto riguarda la reale e giustificata paura che c’è oggi in Italia, purtroppo è difficile porvi rimedio ed è chiaro che, finché ci sono persone che scappano di casa alla ricerca di un posto migliore in cui vivere, ci saranno anche quelli che, così come è successo a me, si lasceranno irretire dalla delinquenza, anche se sono cresciuti in una famiglia dai valori sani. Ma non dare loro nessuna possibilità, puntare solo alla loro esclusione, forse è una scelta che alla lunga non paga.
di Elton Kalica
Discutere oggi in Italia con chi chiede più espulsioni per gli stranieri pare difficile, dato che sono più o meno d’accordo in tanti. Da ogni parte provengono posizioni intransigenti che a molti stranieri e anche a molti cittadini italiani incutono paura, perché fanno pensare a un ritorno agli anni bui del razzismo. Ma io credo che si possa cercare sempre di ragionare, e far ragionare: basta riuscire a mettere per un attimo da parte questo provvedimento così “drastico e irreparabile” che è l’espulsione.
La strada più semplice sembra ovviamente quella di eliminare il problema, e cioè richiudere i confini e bloccare la circolazione delle persone che vengono dai paesi dell’Est europeo. Però, anche ammettendo che questa sia una soluzione che funzioni, e cioè che riesca a bloccare i flussi dei delinquenti provenienti da quei paesi, bisogna tenere sempre in mente che quelle persone, se non vedranno cambiare le condizioni in cui vivono a casa loro, se non si creeranno per loro prospettive di miglioramento, continueranno a voler scappare e a venire in Italia, anche con la prospettiva di restare ingabbiati nella clandestinità: una condizione di vita questa che, sappiamo, porta a vivere alla giornata e spesso spinge a delinquere.
Io sono albanese e nel 1995, all’età di diciannove anni, sono emigrato in Italia seguendo alcuni miei coetanei che scappavano non solo perché convinti che qui ci fosse una gigantesca Hollywood, ma soprattutto perché, in quei primi anni di transizione da un regime comunista a un sistema liberista, le riforme economiche e la rapida privatizzazione avevano portato al licenziamento dei nostri genitori, che non riuscivano più a garantirci nemmeno i pasti quotidiani. Ma oggi la situazione non è tanto diversa nel mio Paese, e non c’è da stare tranquilli.
Sono più di dieci anni che sono in carcere e per questo non so come si vive fuori. Tuttavia mi basta ritornare con la memoria agli anni in cui io stesso vivevo clandestinamente per immaginare il clima. E qui devo aprire un altro capitolo, che è quello della criminalità straniera, sempre più colpevole del malessere dei cittadini italiani, dell’odio e della paura in cui sono costretti a vivere gli italiani: ma la colpa più grave che noi delinquenti stranieri abbiamo è quella di spingere un intero popolo a trovare rifugio in governi autoritari che non riescono tanto a combattere noi, quanto a togliere diritti e libertà ai loro stessi elettori.
Io sostengo che la criminalità straniera non è assolutamente più crudele di quella italiana, però ho sempre saputo che è capace di fare più danni, nel senso che il delinquente italiano dedito ai furti e agli scippi, o al traffico di droga, è spesso un “cacciatore” molto attento, che ruba il necessario per non lasciarci lo zampino, e quando ha svaligiato un appartamento o fatto una rapina, per lui la giornata di “lavoro” è finita. Porta il guadagno a casa e rimane con i propri figli. In questi anni ho conosciuto parecchi criminali italiani e dai loro racconti di malavita ho capito che loro per lo più non sono ingordi, anzi, spesso conducono una seconda vita “regolare”, tranquilla, senza mai eccedere. Mentre gli stranieri, che vivono di furti o scippi, nella maggior parte dei casi non hanno un ambito familiare che li tenga sotto controllo, obbligando ad una facciata di normalità anche il più grande delinquente, e hanno invece una specie di voracità che ha origine anche nella storia dei loro Paesi.
Quindi spesso gli stranieri, anche se svaligiano un appartamento e il colpo si rivela cospicuo, oppure se scippano un anziano che ha appena ritirato la pensione, non hanno una famiglia tranquilla da cui ritornare alla sera, quindi ritornano in strada a trovare un’altra casa con la luce spenta da svuotare, oppure una anziana da scippare. E non si fermano, ma vanno avanti per settimane, per mesi. Ecco perché ci sono sempre più reati di questo tipo, è in ragione di questa voracità che la maggior parte di loro finisce in carcere con una montagna di anni di galera da fare.
Non si può parlare di criminalità dell’Est dimenticandosi di come si vive oggi in quei Paesi
In Italia è diventata ormai una convinzione generale quella che i Paesi dell’Est, con l’Albania in testa, producano continuamente delinquenti. Quando parlo di legalità racconto spesso del primo bar privato aperto a Tirana, che il padrone ha chiamato “Bar Berlusconi”. Faccio questo perché ho visto come passare così bruscamente dai modelli marxisti-leninisti ai dogmi berlusconiani sulla libertà ha confuso molti adulti in quegli anni, ma soprattutto questo cambiamento ha scombussolato i più giovani. Il modello economico adottato oggi dall’Albania, nell’illusione che la transizione all’economia di mercato possa essere eseguita d’un colpo, ha portato al disfacimento dell’apparato statale e conseguentemente alla distruzione della coesione sociale, alla perdita di ogni senso di legalità da parte di molti cittadini, alla radicalizzazione dell’ineguaglianza e alla discriminazione delle persone, che all’improvviso hanno perso anche quei diritti precedentemente garantiti. E l’Occidente ha le sue responsabilità rispetto a questo disastro.
La realtà è che oggi l’Europa si trova a dover gestire flussi di persone che sono cresciute in un clima di cambiamento, dove veniva esaltato il dio denaro e il mondo continuava ad essere descritto come una giungla dove non c’è amore per il prossimo, ma sopravvive chi è furbo e individualista. Io ho finito il liceo nel 1994 e ricordo che in quel periodo, se qualche secchione parlava ancora di uguaglianza, di solidarietà, di pacifismo, di diritti sociali e culturali, veniva zittito e accusato di essere un comunista o uno stalinista.
Non sono un nostalgico del passato, però non si può parlare di criminalità dell’Est dimenticandosi di come si vive oggi in quei Paesi. Se oggi l’Occidente deve affrontare la pazzia della criminalità dell’Est, non sta facendo altro che raccogliere i frutti prodotti dall’albero delle menzogne che così astutamente ha piantato per cinquant’anni, utilizzando i media e ogni altro mezzo di comunicazione per convincere chi viveva nei paesi socialisti che solo il liberismo portava benessere. Invece, un liberismo sfrenato e una specie di democrazia introdotta a una velocità vertiginosa di fatto hanno causato una massiccia disoccupazione, con una conseguente emigrazione di massa, nonché una catena di effetti disastrosi sulla ridistribuzione del reddito e della ricchezza.
Al giorno d’oggi, nessuno sa più cosa dire alle persone che vengono qui in Italia sicure di trovare il paradiso proiettato nel loro immaginario dalla televisione, fatto di ville con piscina, di macchine costose e di belle donne. Chi ha sostenuto per anni che i comunisti mangiavano i bambini, oggi non sa come spiegare ai romeni e agli albanesi che in Italia ci sono sì delle leggi da rispettare, ma le leggi non valgono più quando devi andare a lavorare per dieci ore, in nero, magari sotto un padrone che viaggia in Ferrari e va a prostitute straniere. Nessuno sa come far capire agli immigrati confusi che qui si è liberi di sperare, di parlare, ma per mangiare, per vestirsi e per avere una casa ci vogliono i soldi. E se poi qualcuno, per avere la Ferrari, la villa e le donne viste in televisione, decide di andare a rubare o a sfruttare, non basta che lo mettano subito in galera, gli devono far prendere anche condanne spaventosamente alte, e poi, quando ha finito la pena, lo espellono dall’Unione europea per dieci anni.
La parola “espulsione” ricorda a tutti che non viviamo affatto in un grande villaggio globale
Se da un lato ci sono alcuni stranieri idioti che vengono in Italia e pretendono di vivere una vita da film, dall’altra parte ci sono anche dei “bravi” politici, degli “ingenui” giornalisti e degli “indignati” delinquenti locali che non solo non sanno fare un ragionamento responsabile su questo, ma vogliono usare questo fenomeno per coprire altri problemi più grandi, vogliono diffondere paura nelle persone in modo che la gente, spaventata, si dimentichi della povertà in cui vive e dica magari: “Chi se ne frega di quel che succede dei miei risparmi, dei prezzi alti e degli sprechi! proteggetemi dagli stranieri”.
È assurdo come le vittime del crollo del socialismo reale non siamo stati soltanto noi, poiché ho l’impressione che gli stessi furbi che prima hanno ingannato noi dicendo che qui era tutto Beverly Hills, adesso ingannano voi dicendo che noi siamo tutti tagliagole. E allora, diffondendo paura e odio, la frase che echeggia ovunque è “ci vuole il pugno duro”, che poi si risolve nella richiesta di espulsioni immediate e massicce.
“Espulsione” però è una brutta parola, che fa male non solo a noi ma a tutti, perché ricorda alle persone che esiste un confine nazionale e che non viviamo in un grande villaggio globale, ma che gli italiani hanno delle grandi mura che delimitano il proprio Paese. Espulsione è una parola che non indica solo l’atto di prendere una persona per l’orecchio e allontanarla dal Paese, ma che tratteggia con minuziosità anche una linea di confine che separa gli italiani dal resto del mondo, e da lì il passo è breve per arrivare a pensare che qualsiasi cosa venga da fuori non può essere che il Male. Mi domando soltanto se sia un bene per gli italiani tornare a costruire confini e a erigere muri. Mi domando se poter dare liberamente la caccia agli stranieri non significhi invece ritornare ad aumentare anche il controllo sui cittadini italiani stessi. Mi domando se questi confini, invece di difendere dagli stranieri, non diventino delle gabbie per gli italiani stessi.
Intanto, oggi tutti discutono sull’argomento “espulsioni”, e per fortuna c’è ancora una contrapposizione tra chi è d’accordo e chi no. Ma io intravedo una cosa molto grave in ciò che questo dibattito produce: nessuno si accorge che si sta radicando nella mentalità di una nazione intera l’esistenza di una linea separatrice, di un confine ideale che divide il dentro dal fuori: “dentro” ci sono quelli buoni, quelli civili, quelli ricchi, quelli vincenti, una razza superiore, mentre fuori si sono i cattivi, i barbari, i poveri, i perdenti, una razza inferiore. Ed è una cosa che non si può prendere alla leggera, perché questo atteggiamento potrebbe continuare a radicarsi nelle menti e nelle coscienze di tutte le persone, anche nelle generazioni future, se non si comincia a pensare a soluzioni diverse, che non discriminino e che non facciano dello straniero il male assoluto che si cura soltanto con l’espulsione.
Dunque io penso che da un lato bisogna avere fiducia nell’Unione europea, che con i suoi parametri e con le condizioni che pone ai Paesi membri, dovrebbe spingere anche i Paesi dell’Est ad un livello di benessere comparabile a quello presente nel resto dell’Europa, e allora saranno sempre meno i delinquenti romeni o slavi che verranno in Italia, se non altro perché avranno da rubare a casa loro.
Mi rendo conto però che, per quanto riguarda la reale e giustificata paura che c’è oggi in Italia, purtroppo è difficile porvi rimedio ed è chiaro che, finché ci sono persone che scappano di casa alla ricerca di un posto migliore in cui vivere, ci saranno anche quelli che, così come è successo a me, si lasceranno irretire dalla delinquenza, anche se sono cresciuti in una famiglia dai valori sani. Ma non dare loro nessuna possibilità, puntare solo alla loro esclusione, forse è una scelta che alla lunga non paga.
mercoledì 2 luglio 2008
Etica in appalto
Ultimamente ho poco tempo per scrivere, ma abbastanza per leggere. Ho trovato interessante questo intervento di Michele Serra su Repubblica. L'argomento è più o meno sempre lo stesso (parliamo pur sempre di Serra e di Repubblica) ma si tratta di un'analisi leggera e a mio avviso sapiente ed efficace.
L'etica in appalto
di MICHELE SERRADEI MILLE "casi" italiani, pochi come quello dell'alto dirigente Rai Agostino Saccà ci aiutano a capire lo spaventoso carico di lavoro che la nostra comunità, per sua ormai conclamata inettitudine etica, ha scaricato sulle spalle della magistratura. Convogliando nell'eterna lite "sulla giustizia" questioni la cui soluzione avrebbe dovuto e potuto precedere, e di molto, il loro acido e limaccioso sbocco giudiziario: di qui (anche) l'abnorme peso che il dibattito sulla giustizia ha via via assunto, fino a (quasi) soffocare tutto il resto. Questa volta è toccato al pretore del Lavoro occuparsi di un contenzioso che, di suo, non presenta soverchi misteri. Saccà, a capo di uno dei settori nevralgici dell'azienda televisiva pubblica, ha parlato ripetutamente dei suoi progetti con il proprietario dell'azienda concorrente. Trattando questioni vuoi infime vuoi importanti, e comunque tali, per loro natura, da non potere essere oggetto di colloquio con il competitore industriale. Tanto basterebbe a qualunque azienda, in qualunque Paese dove il mercato ha qualche regola e una sua anche lasca moralità interna, per essere costretta ad allontanare il suo dirigente colto in così grave fallo. Di più: tanto dovrebbe bastare a quel dirigente per considerare inappellabilmente tradita la fiducia dell'azienda, deontologicamente illecito il suo comportamento, urgenti seppure dolorose le sue dimissioni. Invece. Si è lungamente discusso delle riconosciute capacità professionali di Saccà: come se c'entrassero qualcosa. Lo si è difeso oppure attaccato a seconda della sua collocazione politica: come se c'entrasse qualcosa. Si è discettato su toni e esiti dei colloqui con Berlusconi: come se c'entrassero qualcosa. E mano a mano che la vicenda sprofondava nel suo ambiguo, causidico contesto (la Rai, il suo assoggettamento ai politici, il conflitto di interessi), è andata via via sfumando, come sempre più spesso capita, la sostanza del contendere: può un dirigente dell'azienda X trattare di cose aziendali con il proprietario dell'azienda Y (per giunta presidente del Consiglio: ma questa, nel caso in questione, è solo una grottesca variante)? Se la risposta è no, il caso è drasticamente chiuso. Ma la risposta, evidentemente, non è stata no, o perlomeno non lo è stata per tutti. Neanche in Rai, dove Saccà ha molti e loquaci difensori, di ogni parte politica.
La risposta, per dirla tutta, manca. Manca nelle coscienze di molti. Manca nelle abitudini e nei costumi del cosiddetto Palazzo (dove si tratta con tutti e su tutto, senza che mai echeggi la salvifica frase "mi scusi, ma di queste cose non posso parlare con lei"). Manca nel costume sociale, dove il favore, l'amicizia, la protezione, la raccomandazione sono da tempo la solida prassi che supplisce al totale relativismo della teoria. E manca, evidentemente, anche la domanda: questo comportamento è lecito o illecito? È giusto o sbagliato? Tecnicamente, questo e solo questo è l'etica: domandarsi se un atto, specie se compiuto da noi stessi, è giusto o sbagliato. Poiché questo genere di domande precede la nascita del caso giudiziario, e magari lo disinnesca prima che esploda, è facile capire che il gigantesco viluppo di carte bollate, cause, procedimenti, ricorsi che ammorba il paese, è causato dalla quasi totale assenza di quel sano, utilissimo momento pre-giudiziario che è l'etica. E se nessuno osa sperare di vivere in una comunità semi-santificata, nella quale la magistratura debba intervenire solo in rari e gravissimi casi, tutti dobbiamo però sentirci atterriti dalla spaventosa, crescente "giudiziarizzazione" di tutto ciò che giace irrisolto a causa della impressionante assenza di un'etica condivisa, di domande e risposte che surclassino, nella coscienza collettiva, le opinioni politiche, e perfino le sentenze della magistratura. Tanto è vero che metà del Paese vive nell'attesa messianica, e giustamente frustrata, di una qualche carta da bollo che arrivi a decapitare il padre di tutti gli arbitrii, che è il conflitto di interessi. E l'altra metà è convinta che le carte della giustizia siano solo una subdola, sordida arma politica. A tanto si può arrivare quando il corpo sociale nel suo complesso non possiede più un giudizio proprio sulle cose pubbliche e pure private (vedasi i sorrisetti compiaciuti che fanno corona al disgustoso casting di amichette-attricette). È in fondo a questo vuoto morale, è al termine di questa mancata tutela di se stessi e dei propri atti, che il giudice, di ogni ordine e grado, si ritrova così spesso nel poco salubre, poco sereno ruolo del supplente morale e peggio del fiancheggiatore politico, quasi spodestato della sua rassicurante aura tecnica, della sua professione di interprete delle leggi, per finire scaraventato in una faida che, partendo dal cuore politico del Paese, sta risalendo anzi è già risalito fino alle venuzze periferiche del favore sessuale, del maneggio professionale, dell'inciucio aziendale. Agostino Saccà è un eccellente dirigente televisivo. Ma ha gravemente sbagliato. Ora questo errore, come tante altre cose, è diventato trafila giudiziaria, guerra di ricorsi, duello di sentenze. Cioè non è più un errore. È un oggetto giuridico, è materia che la nostra collettività non è più in grado di maneggiare con qualche serenità, con qualche buon senso. È una domanda, è una risposta che sono state appaltate alla magistratura come ennesimo segno di impotenza a fare da noi, a regolarci tra noi. Povero il Paese che non è capace di risolvere più niente, decidere più niente, e soprattutto giudicare più niente fuori dalle aule di giustizia. (2 luglio 2008)
L'etica in appalto
di MICHELE SERRADEI MILLE "casi" italiani, pochi come quello dell'alto dirigente Rai Agostino Saccà ci aiutano a capire lo spaventoso carico di lavoro che la nostra comunità, per sua ormai conclamata inettitudine etica, ha scaricato sulle spalle della magistratura. Convogliando nell'eterna lite "sulla giustizia" questioni la cui soluzione avrebbe dovuto e potuto precedere, e di molto, il loro acido e limaccioso sbocco giudiziario: di qui (anche) l'abnorme peso che il dibattito sulla giustizia ha via via assunto, fino a (quasi) soffocare tutto il resto. Questa volta è toccato al pretore del Lavoro occuparsi di un contenzioso che, di suo, non presenta soverchi misteri. Saccà, a capo di uno dei settori nevralgici dell'azienda televisiva pubblica, ha parlato ripetutamente dei suoi progetti con il proprietario dell'azienda concorrente. Trattando questioni vuoi infime vuoi importanti, e comunque tali, per loro natura, da non potere essere oggetto di colloquio con il competitore industriale. Tanto basterebbe a qualunque azienda, in qualunque Paese dove il mercato ha qualche regola e una sua anche lasca moralità interna, per essere costretta ad allontanare il suo dirigente colto in così grave fallo. Di più: tanto dovrebbe bastare a quel dirigente per considerare inappellabilmente tradita la fiducia dell'azienda, deontologicamente illecito il suo comportamento, urgenti seppure dolorose le sue dimissioni. Invece. Si è lungamente discusso delle riconosciute capacità professionali di Saccà: come se c'entrassero qualcosa. Lo si è difeso oppure attaccato a seconda della sua collocazione politica: come se c'entrasse qualcosa. Si è discettato su toni e esiti dei colloqui con Berlusconi: come se c'entrassero qualcosa. E mano a mano che la vicenda sprofondava nel suo ambiguo, causidico contesto (la Rai, il suo assoggettamento ai politici, il conflitto di interessi), è andata via via sfumando, come sempre più spesso capita, la sostanza del contendere: può un dirigente dell'azienda X trattare di cose aziendali con il proprietario dell'azienda Y (per giunta presidente del Consiglio: ma questa, nel caso in questione, è solo una grottesca variante)? Se la risposta è no, il caso è drasticamente chiuso. Ma la risposta, evidentemente, non è stata no, o perlomeno non lo è stata per tutti. Neanche in Rai, dove Saccà ha molti e loquaci difensori, di ogni parte politica.
La risposta, per dirla tutta, manca. Manca nelle coscienze di molti. Manca nelle abitudini e nei costumi del cosiddetto Palazzo (dove si tratta con tutti e su tutto, senza che mai echeggi la salvifica frase "mi scusi, ma di queste cose non posso parlare con lei"). Manca nel costume sociale, dove il favore, l'amicizia, la protezione, la raccomandazione sono da tempo la solida prassi che supplisce al totale relativismo della teoria. E manca, evidentemente, anche la domanda: questo comportamento è lecito o illecito? È giusto o sbagliato? Tecnicamente, questo e solo questo è l'etica: domandarsi se un atto, specie se compiuto da noi stessi, è giusto o sbagliato. Poiché questo genere di domande precede la nascita del caso giudiziario, e magari lo disinnesca prima che esploda, è facile capire che il gigantesco viluppo di carte bollate, cause, procedimenti, ricorsi che ammorba il paese, è causato dalla quasi totale assenza di quel sano, utilissimo momento pre-giudiziario che è l'etica. E se nessuno osa sperare di vivere in una comunità semi-santificata, nella quale la magistratura debba intervenire solo in rari e gravissimi casi, tutti dobbiamo però sentirci atterriti dalla spaventosa, crescente "giudiziarizzazione" di tutto ciò che giace irrisolto a causa della impressionante assenza di un'etica condivisa, di domande e risposte che surclassino, nella coscienza collettiva, le opinioni politiche, e perfino le sentenze della magistratura. Tanto è vero che metà del Paese vive nell'attesa messianica, e giustamente frustrata, di una qualche carta da bollo che arrivi a decapitare il padre di tutti gli arbitrii, che è il conflitto di interessi. E l'altra metà è convinta che le carte della giustizia siano solo una subdola, sordida arma politica. A tanto si può arrivare quando il corpo sociale nel suo complesso non possiede più un giudizio proprio sulle cose pubbliche e pure private (vedasi i sorrisetti compiaciuti che fanno corona al disgustoso casting di amichette-attricette). È in fondo a questo vuoto morale, è al termine di questa mancata tutela di se stessi e dei propri atti, che il giudice, di ogni ordine e grado, si ritrova così spesso nel poco salubre, poco sereno ruolo del supplente morale e peggio del fiancheggiatore politico, quasi spodestato della sua rassicurante aura tecnica, della sua professione di interprete delle leggi, per finire scaraventato in una faida che, partendo dal cuore politico del Paese, sta risalendo anzi è già risalito fino alle venuzze periferiche del favore sessuale, del maneggio professionale, dell'inciucio aziendale. Agostino Saccà è un eccellente dirigente televisivo. Ma ha gravemente sbagliato. Ora questo errore, come tante altre cose, è diventato trafila giudiziaria, guerra di ricorsi, duello di sentenze. Cioè non è più un errore. È un oggetto giuridico, è materia che la nostra collettività non è più in grado di maneggiare con qualche serenità, con qualche buon senso. È una domanda, è una risposta che sono state appaltate alla magistratura come ennesimo segno di impotenza a fare da noi, a regolarci tra noi. Povero il Paese che non è capace di risolvere più niente, decidere più niente, e soprattutto giudicare più niente fuori dalle aule di giustizia. (2 luglio 2008)
martedì 17 giugno 2008
Salviamo la Gozzini
Riporto il mio intervento per "Ristretti Orizzonti", in risposta all'appello "Salviamo la Gozzini".
Il disegno di legge "Berselli" è un’offesa alla logica e al buon senso; è già discutibile la tautologia "più carcere = più sicurezza". Ma diventa addirittura insulto all’intelligenza - postulare un’azione educativa più efficace potenziando l’aspetto custodiale - quando le carceri già adesso scoppiano (e non certo di salute).
Tutto si può migliorare, quindi anche la Gozzini. Di tutto si può discutere, quindi anche di permessi agli ergastolani o detenzione domiciliare. Ma la logica di fondo di questo disegno di legge, incautamente e superficialmente "custodiale" e "securitaria", è frutto di una cultura penitenziaria involuta e dei soliti richiami demagogici per cui una misura alternativa diventa "assenza della pena".
Il disegno di legge "Berselli" è un’offesa alla logica e al buon senso; è già discutibile la tautologia "più carcere = più sicurezza". Ma diventa addirittura insulto all’intelligenza - postulare un’azione educativa più efficace potenziando l’aspetto custodiale - quando le carceri già adesso scoppiano (e non certo di salute).
Tutto si può migliorare, quindi anche la Gozzini. Di tutto si può discutere, quindi anche di permessi agli ergastolani o detenzione domiciliare. Ma la logica di fondo di questo disegno di legge, incautamente e superficialmente "custodiale" e "securitaria", è frutto di una cultura penitenziaria involuta e dei soliti richiami demagogici per cui una misura alternativa diventa "assenza della pena".
venerdì 16 maggio 2008
Involuzione bipartisan
In preda a spasmi di disgusto dopo la puntata di ieri di "Annozero", riporto un mio intervento in una discussione sul blog di Sandro Ruotolo, a proposito del barbarico espisodio di Ponticelli.
Bravo Sandro, finalmente! Ogni mattina oltre ai giornali mi faccio un giro sui blog. Tutti a parlare delle solite cose (da Andreotti "mafioso" a Fede "abusivo"). Non che non siano importanti, ma non una parola su ciò che è successo a Ponticelli, una cosa tremenda, devastante, preoccupante soprattutto per il silenzio istituzionale, in alcuni casi silenzio assenso o, come nel caso di Bossi, quasi un messaggio di condivisione.
Ma cosa blaterate che gli zingari fanno paura quanto la camorra? E allora perchè non si va con le molotov a casa dei camorristi? La camorra fa molta più paura, è molto più pericolosa e di nocumento al territorio, ci tiene per le palle. E allora frustrati e sottomessi, andiamo a fare i duri con i Rom.
Ma abbiamo perso completamente ogni resistenza di fronte all'individualismo cieco, dilagante anche a sinistra? In quei campi Rom ci sono anche lavoratori, bambini, fatemi capire! Se una ragazza di una delle vele di Scampia rapisce un bambino, sfollate tutto il palazzo, mettendo col culo a terra indifferentemente tutti i condomini? La verità è che siete razzisti e ignoranti. Razzisti, perchè se una Rom ruba, allora i Rom rubano. E non siete diversi da quelli a nord che ancora hanno spregio per i meridionali. Se un meridionale gli sfascia la casa, perchè non pensare che lo facciano tutti i meridionali?
E ignoranti. Perchè questa idiozia dei Rom che rubano i bambini (una volta si diceva degli Ebrei...) non ha alcun fondamento giuridico, non esiste nessun caso documentato di una cosa del genere. Ma non è il caso di perdersi in queste sottigliezze, vero? Una Rom ha provato a rapire un bambino, dunque è tutto vero!
E allora armiamoci di fiaccole, andiamo a tirare fuori dalle baracche le nuove streghe, gli untori, senza avere quel minimo di lucidità e coraggio per capire che più si spinge una molla, e con maggiore violenza ci rimbalzerà in faccia.
Ieri ho visto Annozero con la morte nel cuore. Ormai i deliri dei leghisti e delle truppe berlusconiane sono passati nella cultura generale del paese. L'Italia regredisce anche grazie alla totale inutilità di una sinistra divisa tra inseguitori delle destre, intellettualini che ci abboffano non dico cosa con le loro ossessioni legalitarie, e quelli che continuano a gridare alla rivoluzione, Lenin, Stalin, Mao, Bau Bau e Micio Micio.
Siamo agonizzanti.
Bravo Sandro, finalmente! Ogni mattina oltre ai giornali mi faccio un giro sui blog. Tutti a parlare delle solite cose (da Andreotti "mafioso" a Fede "abusivo"). Non che non siano importanti, ma non una parola su ciò che è successo a Ponticelli, una cosa tremenda, devastante, preoccupante soprattutto per il silenzio istituzionale, in alcuni casi silenzio assenso o, come nel caso di Bossi, quasi un messaggio di condivisione.
Ma cosa blaterate che gli zingari fanno paura quanto la camorra? E allora perchè non si va con le molotov a casa dei camorristi? La camorra fa molta più paura, è molto più pericolosa e di nocumento al territorio, ci tiene per le palle. E allora frustrati e sottomessi, andiamo a fare i duri con i Rom.
Ma abbiamo perso completamente ogni resistenza di fronte all'individualismo cieco, dilagante anche a sinistra? In quei campi Rom ci sono anche lavoratori, bambini, fatemi capire! Se una ragazza di una delle vele di Scampia rapisce un bambino, sfollate tutto il palazzo, mettendo col culo a terra indifferentemente tutti i condomini? La verità è che siete razzisti e ignoranti. Razzisti, perchè se una Rom ruba, allora i Rom rubano. E non siete diversi da quelli a nord che ancora hanno spregio per i meridionali. Se un meridionale gli sfascia la casa, perchè non pensare che lo facciano tutti i meridionali?
E ignoranti. Perchè questa idiozia dei Rom che rubano i bambini (una volta si diceva degli Ebrei...) non ha alcun fondamento giuridico, non esiste nessun caso documentato di una cosa del genere. Ma non è il caso di perdersi in queste sottigliezze, vero? Una Rom ha provato a rapire un bambino, dunque è tutto vero!
E allora armiamoci di fiaccole, andiamo a tirare fuori dalle baracche le nuove streghe, gli untori, senza avere quel minimo di lucidità e coraggio per capire che più si spinge una molla, e con maggiore violenza ci rimbalzerà in faccia.
Ieri ho visto Annozero con la morte nel cuore. Ormai i deliri dei leghisti e delle truppe berlusconiane sono passati nella cultura generale del paese. L'Italia regredisce anche grazie alla totale inutilità di una sinistra divisa tra inseguitori delle destre, intellettualini che ci abboffano non dico cosa con le loro ossessioni legalitarie, e quelli che continuano a gridare alla rivoluzione, Lenin, Stalin, Mao, Bau Bau e Micio Micio.
Siamo agonizzanti.
martedì 29 aprile 2008
Immigrazione: status di irregolare è prima causa di devianza
di Andrea Di Nicola (Ricercatore in Criminologia, Università di Trento)
Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2008
L’equazione "stranieri uguale criminalità" serpeggia tra i media, i politici e la gente comune. Le notizie sulla sicurezza sono urlate e i cittadini hanno paura. Bisognerebbe fare chiarezza, riportare oggettività in un dibattito "emotivo", per ragionare sulle possibili soluzioni. Come emerge dai dati del Dap e dagli studi condotti dal Centro interuniversitario Transcrime (Università di Trento e Cattolica), il quadro dei dati sugli immigrati presenti nei penitenziari italiani certo non appare roseo: sono tanti e in aumento e anche il confronto con altri Paesi evidenzia che la situazione italiana, pur non essendo la peggiore è complicata.
I dati significano però poco se non sono interpretati. I perché di così tanti stranieri sono spesso legati, infatti, a cause oggettive che sfavoriscono i migranti e di cui all’opinione pubblica si da raramente conto. Vediamole. La criminologia da tempo insegna che sono i maschi giovani a delinquere di più.
Poiché la popolazione straniera ha più maschi giovani di quella italiana, essa è statisticamente più a rischio di commettere reati. Inoltre, che cosa ci aiuta a conformare le nostre condotte alle regole, a comportarci bene? I legami sociali, gli affetti, la rete di persone intorno a noi, il nostro livello di integrazione nella società. Tutte cose che, non di rado, gli stranieri non hanno.
Possono poi sentire il peso della delusione di aspettative non corrisposte; e le frustrazioni, a volte, generano devianza. Un altro fattore da considerare è la condizione - di regolarità o irregolarità - dello straniero. La maggior parte della criminalità degli immigrati - tra il 70 e il 90% a seconda dei reati - è appannaggio degli irregolari. Analisi scientifiche dimostrano che i regolari hanno invece tassi di criminalità più bassi degli italiani.
È quindi l’irregolarità a produrre criminalità, e non, come una lettura superficiale dei dati potrebbe far pensare, la semplice nazionalità straniera di una persona. E più le norme sull’immigrazione contribuiranno involontariamente a generare irregolarità, più le nostre carceri traboccheranno di immigrati. Gli extracomunitari sono poi sovra rappresentati perché molti sono perseguiti per violazione delle leggi sull’immigrazione, reati che gli italiani, per ovvi motivi, non possono commettere. Si tratta di delitti per i quali entrano e rimangono in prigione solo per pochi giorni, facendo lievitare i numeri.
Oltre a queste violazioni, i reati degli immigrati sono per lo più furti, scippi, rapine e spaccio di stupefacenti. Crimini ad alta visibilità, che allarmano l’opinione pubblica, che attraggono l’attenzione delle polizie più di altri e per i quali è spesso previsto l’arresto in flagranza: questo significa più probabilità, rispetto agli italiani che si concentrano anche su altre forme di criminalità, di essere denunciati e di finire in galera. Così come è più alta la probabilità di denuncia, così, dopo la denuncia, per lo straniero è più elevata la probabilità di rimanere in carcere in attesa di giudizio.
Il rapporto tra stranieri e giustizia italiana è difficile. Possono avere problemi a esercitare il diritto alla difesa, per scarse possibilità economiche o per la carenza di una rete di rapporti familiari e/o amicali stabili. Inoltre la limitata conoscenza della lingua può penalizzarli durante l’intero processo penale. Raramente, d’altro canto, propongono appello contro la sentenza. In attesa di giudizio, all’immigrato di rado sono concessi i domiciliari: la custodia cautelare è spesso eseguita in carcere per mancanza di una fissa dimora e perché esiste un concreto pericolo di fuga.
Ma anche nel caso di condanna a pena detentiva, le alternative alla detenzione sono usate poco. I motivi sono, anche qui, lo stato di irregolarità unito alla scarsità di strutture lavorative e abitative in grado di accogliere gli extracomunitari. Questi ultimi, in aggiunta, usufruiscono raramente di trattamenti disintossicanti al di fuori del carcere.
Per la sostanza prevalentemente usata (la cocaina), la dipendenza è meno forte e con sintomi di astinenza meno violenti di quanto accade per gli italiani. La gestione di stranieri tossicodipendenti in carcere diventa più semplice. Il loro stato di irregolarità o clandestinità non permette poi la copertura sanitaria "fuori". Gli immigrati sono i nuovi ultimi. E nelle carceri finiscono gli ultimi. Le nostre prigioni sono sempre più un grande contenitore di disagio sociale. Un disagio che dovremmo sentire, ma che non ascoltiamo.
Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2008
L’equazione "stranieri uguale criminalità" serpeggia tra i media, i politici e la gente comune. Le notizie sulla sicurezza sono urlate e i cittadini hanno paura. Bisognerebbe fare chiarezza, riportare oggettività in un dibattito "emotivo", per ragionare sulle possibili soluzioni. Come emerge dai dati del Dap e dagli studi condotti dal Centro interuniversitario Transcrime (Università di Trento e Cattolica), il quadro dei dati sugli immigrati presenti nei penitenziari italiani certo non appare roseo: sono tanti e in aumento e anche il confronto con altri Paesi evidenzia che la situazione italiana, pur non essendo la peggiore è complicata.
I dati significano però poco se non sono interpretati. I perché di così tanti stranieri sono spesso legati, infatti, a cause oggettive che sfavoriscono i migranti e di cui all’opinione pubblica si da raramente conto. Vediamole. La criminologia da tempo insegna che sono i maschi giovani a delinquere di più.
Poiché la popolazione straniera ha più maschi giovani di quella italiana, essa è statisticamente più a rischio di commettere reati. Inoltre, che cosa ci aiuta a conformare le nostre condotte alle regole, a comportarci bene? I legami sociali, gli affetti, la rete di persone intorno a noi, il nostro livello di integrazione nella società. Tutte cose che, non di rado, gli stranieri non hanno.
Possono poi sentire il peso della delusione di aspettative non corrisposte; e le frustrazioni, a volte, generano devianza. Un altro fattore da considerare è la condizione - di regolarità o irregolarità - dello straniero. La maggior parte della criminalità degli immigrati - tra il 70 e il 90% a seconda dei reati - è appannaggio degli irregolari. Analisi scientifiche dimostrano che i regolari hanno invece tassi di criminalità più bassi degli italiani.
È quindi l’irregolarità a produrre criminalità, e non, come una lettura superficiale dei dati potrebbe far pensare, la semplice nazionalità straniera di una persona. E più le norme sull’immigrazione contribuiranno involontariamente a generare irregolarità, più le nostre carceri traboccheranno di immigrati. Gli extracomunitari sono poi sovra rappresentati perché molti sono perseguiti per violazione delle leggi sull’immigrazione, reati che gli italiani, per ovvi motivi, non possono commettere. Si tratta di delitti per i quali entrano e rimangono in prigione solo per pochi giorni, facendo lievitare i numeri.
Oltre a queste violazioni, i reati degli immigrati sono per lo più furti, scippi, rapine e spaccio di stupefacenti. Crimini ad alta visibilità, che allarmano l’opinione pubblica, che attraggono l’attenzione delle polizie più di altri e per i quali è spesso previsto l’arresto in flagranza: questo significa più probabilità, rispetto agli italiani che si concentrano anche su altre forme di criminalità, di essere denunciati e di finire in galera. Così come è più alta la probabilità di denuncia, così, dopo la denuncia, per lo straniero è più elevata la probabilità di rimanere in carcere in attesa di giudizio.
Il rapporto tra stranieri e giustizia italiana è difficile. Possono avere problemi a esercitare il diritto alla difesa, per scarse possibilità economiche o per la carenza di una rete di rapporti familiari e/o amicali stabili. Inoltre la limitata conoscenza della lingua può penalizzarli durante l’intero processo penale. Raramente, d’altro canto, propongono appello contro la sentenza. In attesa di giudizio, all’immigrato di rado sono concessi i domiciliari: la custodia cautelare è spesso eseguita in carcere per mancanza di una fissa dimora e perché esiste un concreto pericolo di fuga.
Ma anche nel caso di condanna a pena detentiva, le alternative alla detenzione sono usate poco. I motivi sono, anche qui, lo stato di irregolarità unito alla scarsità di strutture lavorative e abitative in grado di accogliere gli extracomunitari. Questi ultimi, in aggiunta, usufruiscono raramente di trattamenti disintossicanti al di fuori del carcere.
Per la sostanza prevalentemente usata (la cocaina), la dipendenza è meno forte e con sintomi di astinenza meno violenti di quanto accade per gli italiani. La gestione di stranieri tossicodipendenti in carcere diventa più semplice. Il loro stato di irregolarità o clandestinità non permette poi la copertura sanitaria "fuori". Gli immigrati sono i nuovi ultimi. E nelle carceri finiscono gli ultimi. Le nostre prigioni sono sempre più un grande contenitore di disagio sociale. Un disagio che dovremmo sentire, ma che non ascoltiamo.
lunedì 28 aprile 2008
Lettera al Papa
E se invece...
di Fausto Marinetti
(Sognando un viaggio papale diverso...)
Caro Papa, se sei "padre di tutti", non puoi non ascoltare anche lo sfogo dell’ultimo dei tuoi figli, vero?
1 - E se invece di incontrarti con 5 vittime degli abusi sessuali del clero ti fossi incontrato in uno stadio con i 5mila e più preti pedofili? Se invece di parlare di "questa terribile prova come un momento di purificazione", avessi riconosciuto con loro le colpe istituzionali, la violazione della "Carta del fanciullo" dell’ONU che proibisce l’arruolamento e la segregazione dei minori in seminario? Se avessi ammesso che un ambiente a sesso unico e dove la sessualità è considerata peccato non può che favorire le peggiori depravazioni sessuali quali la pedofilia? Se avessi individuato nella cultura catto-pagana della corporeità la causa di tante deviazioni e ossessioni sessuofobiche? Una certa devozione mariana non contribuisce all’immaturità emozionale, trasmettendo un modello di donna asessuata, incorporea? Che cosa succederà quando il giovane prete sarà a contatto con il gregge che al 50% è femminile? Come può il celibato essere una libera scelta se il candidato non sa, di fatto, ciò a cui rinuncia ed è travolto dall’entusiasmo giovanile e dall’indottrinamento? Che ne sa della crisi di paternità, della naturale complementarietà con l’altra "metà del cielo", della solitudine affettiva, che lo sorprenderà più avanti? Non è temerarietà mandare allo sbaraglio dei giovani, senza "istruzioni per l’uso", senza una maturazione umana per il controllo delle pulsioni? In certi delitti ci sono gli esecutori materiali ed i mandanti. Nel caso della pedofilia chi sono i mandanti? E’ sufficiente elaborare un regolamento più restrittivo, chiedere perdono, alleggerire le casseforti diocesane (2 miliardi di dollari), lasciando tutto il resto come prima?
Si dice che tu abbia letto, da cardinale, i resoconti di migliaia di denunce. Ma allora perché parlare di "comportamento gravemente immorale"; "questo male"; " la dimensione e la gravità del problema"; " il peccato d’abuso", senza mai chiamarlo con il suo vero nome, cioè crimine, delitto, come prevede il codice civile? (Anche il card. B. Law in tribunale aveva dichiarato: "Noi credevamo che fosse un peccato, non un crimine.."). Ti sei reso conto che dei bambini/e, traditi dal rappresentante di Dio, hanno avuto la sensazione di essere violentati da Dio stesso? Una tragedia così insopportabile, che diversi hanno infierito su se stessi con il suicidio, la droga, l’alcool. Erano certi che neppure una chiesa-matrigna, cieca e sorda alla loro disperazione, avrebbe potuto restituire loro la gioia di vivere?
2- E se invece di un incontro segreto, avessi invitato nello stadio le oltre diecimila vittime dichiarate, questo fatto non avrebbe incoraggiato tutte le altre a venire allo scoperto? E se ti fossi fatto aiutare dai 5mila preti pedofili a lavare loro i piedi? E se poi avessi fatto imbandire un banchetto? Non sarebbe stato il segno più efficace della celebrazione del perdono? (Secondo certe proiezioni non c’è stadio capace di contenere le centomila vittime presunte...)
Doveroso mescolare le tue lacrime con quelle delle vittime, ma queste dichiarano che non basta piangere, ci vogliono azioni concrete, fatti nuovi. Per esempio: non premiare il card. Law con il titolo di arciprete di s. Maria maggiore; processare e destituire i vescovi responsabili della diffusione dell’infezione; ascoltare i laici, coinvolgerli nella gestione della parrocchia e dei beni ecclesiastici. Meglio ancora, tornare alle origini: i preti siano solo degli anziani di provata saggezza.
3- L’incontro con il presidente Bush fa pensare ad un Papa "americanizzato" più che globalizzato. E se invece di stringere una mano insanguinata, avessi posato con l’ultimo candidato alla pena di morte, quale brivido evangelico avrebbe invaso il mondo? E se poi avessi celebrato il "Vangelo della vita" nel braccio della morte del più grande carcere statunitense? Non è forse vero che il presentarsi sulla scena del mondo come capo di Stato non può che indurre a inevitabili quanto intollerabili compromessi? Te lo immagini un Cristo che posa sorridente con Erode o con Nerone?
4- Se il pastore chiama a raccolta solo le pecorelle che sono nel recinto; se cerca il loro plauso e applauso; se coltiva il loro servilismo, non rischia di ampliare il mito del "fuhrer religioso"? Se invece di una popolarità gonfiata ad arte, al costo di 20 dollari per gadget; se invece di accarezzare il vezzo popolare che mette sullo stesso piano rock star, politici, capi religiosi, tu avessi dato un segno profetico, celebrando nel Bronx, in una periferia, in un nosocomio, in un raduno di afro-americani? Oh la lezione del Cristo, che fa il suo ingresso trionfale a Gerusalemme in groppa ad un asinello! Che presa in giro dei generali che celebravano i loro sanguinosi trionfi entrando in città a cavallo, con i trofei degli schiavi ed i bottini di guerra! Perché presentarsi ancora con insegne imperiali, bardamenti medioevali, cui hanno rinunciato anche i capi di Stato? Viene forse sminuito lo spessore morale del Dalai Lama quando si presenta con il vestito della semplicità?
5- E’ bene ricordare le "ingiustizie sofferte dalle native popolazioni americane e da quanti dall’Africa furono portati qui come schiavi". Ma perché non mettere il dito sulla piaga dell’american way of living, su uno stile di vita all’insegna dell’usa-e-getta, che diventa il modello di ogni popolo? Non una parola sull’inquinamento delle culture minori, sulle nuove invasioni hollywoodiane, i fast food, le armi personali, lo "spionaggio celeste", la tortura, le guerre stellari, ecc.
6- Se Cristo afferma di non essere venuto per i sani, ma per i malati, perché non incontrare drogati, carcerati, malati terminali, prostitute, aspiranti suicidi, gay e quant’altro? E se invece di chierici, vescovi e cardinali (non li incontri tutti i momenti nei sacri palazzi?), avessi riservato un incontro ufficiale alle madri, i cui figli sono stati uccisi in guerra? E se avessi ascoltato le donne, le ragazze madri, le vedove per sentire il loro parere su contraccettivi, staminali, feti prematuri, ecc.? Tu, professore e gran teologo, saprai tutto, ma non saprai cosa vuol dire essere donna e madre, vero? Ah, la mania clericale di predicare, insegnare, far piovere la "verità" dall’alto! Ma se non si ascolta, se non si accoglie il tormento degli altri, se non si condivide, come sarà possibile dare delle risposte ai disperati e ai perduti?
7 - Se all’ONU invece di richiamare le nazioni ai loro doveri, avessi chiesto perdono per aver imbavagliato tanti teologi, interrotto il dialogo, offeso le altre religioni, dichiarandole incapaci di salvezza? Forse che il Cristo è geloso, si vergogna di farsi aiutare, nel suo lavoro salvifico, da Budda, Muhammad, Gandhi, Luther King? Si parla di trionfo papale nel palazzo di vetro, ma fame e Nord/Sud ci sono andati stretti nel discorso ufficiale. Sei forse un papa filoccidentale, quasi sordo-muto per i popoli senza voce?
8- E se tu sapessi cosa vuol dire disperarsi per non poter dare da mangiare ai figli, non avresti detto una parola chiara a chi si dice cattolico e possiede capitali tali da finanziare anche il viaggio papale? (4 cittadini americani - Bill Gates, Paul Allen, Warren Buffet e Larry Eleison - detengono il PIL di 42 paesi poveri con una popolazione di 600 milioni di abitanti)? Come può il "padre di tutti" ignorare che 50 milioni di americani sono a rischio impoverimento? Proprio nel palazzo di vetro il segretario generale aveva invitato le nazioni ad arrestare l’aumento del prezzo dei generi alimentari di circa il 40% in un anno ([1]), che produrrà un vero «silenzioso omicidio di massa» (Jean Ziegler). "Più di tre miliardi di persone sono condannate ad una morte prematura. Lunedì 26 marzo la sinistra idea di trasformare gli alimenti in combustibile è stata definitivamente fissata come linea economica della politica estera statunitense" (Fidel Castro).
9- E se invece di esaltare ancora una volta la carità, avessi detto che i problemi si risolvono con la giustizia e con cambiamenti strutturali? Come esorti medici, infermieri e farmacisti a fare obiezione di coscienza contro tutto ciò che si oppone al "Vangelo della vita", perché non inviti ad obiettare contro le guerre preventive, i bombardamenti all’uranio impoverito, le bombe intelligenti, i morti civili (che i generali chiamano danni collaterali), i profughi (5 milioni), i mutilati (4 milioni), le vedove e gli orfani, i 12 milioni di senzatetto, i 12 milioni di traumatizzati, i 7/8 milioni di bambini di strada in America Latina?
10- Se a Ground Zero non ti fossi limitato a pregare, ma avessi richiamato una nazione onnipotente al rischio di essere erede della cultura del super-popolo, di una "nuova razza ariana", che tanta strage ha fatto? Non pesa su un terzo dei cattolici americani (60 milioni) la responsabilità di essere la nazione più armata (750 basi militari nel mondo), più arricchita, più sfruttatrice, più bellicosa del mondo?
Forse gli ingenui siamo noi, che pretendiamo, da un papa-professore, di parlare più da "padre", che da cattedratico, più con segni efficaci, che con raziocini astratti?
Tuo indegno figlio,
fausto marinetti
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Note
[1] Sono scoppiate "sommosse del pane" in Camerun, Egitto, Burkina Faso. Negli ultimi anni la domanda di cibo è cresciuta dell’8%, il prezzo è aumentato del 50%. E’ la globalizzazione dei morti di fame. Secondo l’ONU, circa 4 miliardi vivono sotto il limite di sopravvivenza: 2 miliardi e 800 milioni dispone di 60 dollari mensili; 1 miliardo e 200 milioni di 30 dollari; un miliardo gli analfabeti (tre quarti sono donne; 27 milioni vivono in situazione di schiavitù; 200 milioni per il commercio sessuale; Nel mondo ogni anno muoiono di fame da 5 a 20 milioni di persone. Secondo il World Food Programme (2001), sul pianeta c’è cibo sufficiente per l’intera popolazione mondiale. Ma nonostante ciò la fame affligge ancora una persona su sette. In Europa e Stati Uniti si spendono 17 miliardi di euro per gli animali domestici. Ne bastano 13 per garantire salute e alimentazione in tutto il mondo.
Mercoledì, 23 aprile 2008
di Fausto Marinetti
(Sognando un viaggio papale diverso...)
Caro Papa, se sei "padre di tutti", non puoi non ascoltare anche lo sfogo dell’ultimo dei tuoi figli, vero?
1 - E se invece di incontrarti con 5 vittime degli abusi sessuali del clero ti fossi incontrato in uno stadio con i 5mila e più preti pedofili? Se invece di parlare di "questa terribile prova come un momento di purificazione", avessi riconosciuto con loro le colpe istituzionali, la violazione della "Carta del fanciullo" dell’ONU che proibisce l’arruolamento e la segregazione dei minori in seminario? Se avessi ammesso che un ambiente a sesso unico e dove la sessualità è considerata peccato non può che favorire le peggiori depravazioni sessuali quali la pedofilia? Se avessi individuato nella cultura catto-pagana della corporeità la causa di tante deviazioni e ossessioni sessuofobiche? Una certa devozione mariana non contribuisce all’immaturità emozionale, trasmettendo un modello di donna asessuata, incorporea? Che cosa succederà quando il giovane prete sarà a contatto con il gregge che al 50% è femminile? Come può il celibato essere una libera scelta se il candidato non sa, di fatto, ciò a cui rinuncia ed è travolto dall’entusiasmo giovanile e dall’indottrinamento? Che ne sa della crisi di paternità, della naturale complementarietà con l’altra "metà del cielo", della solitudine affettiva, che lo sorprenderà più avanti? Non è temerarietà mandare allo sbaraglio dei giovani, senza "istruzioni per l’uso", senza una maturazione umana per il controllo delle pulsioni? In certi delitti ci sono gli esecutori materiali ed i mandanti. Nel caso della pedofilia chi sono i mandanti? E’ sufficiente elaborare un regolamento più restrittivo, chiedere perdono, alleggerire le casseforti diocesane (2 miliardi di dollari), lasciando tutto il resto come prima?
Si dice che tu abbia letto, da cardinale, i resoconti di migliaia di denunce. Ma allora perché parlare di "comportamento gravemente immorale"; "questo male"; " la dimensione e la gravità del problema"; " il peccato d’abuso", senza mai chiamarlo con il suo vero nome, cioè crimine, delitto, come prevede il codice civile? (Anche il card. B. Law in tribunale aveva dichiarato: "Noi credevamo che fosse un peccato, non un crimine.."). Ti sei reso conto che dei bambini/e, traditi dal rappresentante di Dio, hanno avuto la sensazione di essere violentati da Dio stesso? Una tragedia così insopportabile, che diversi hanno infierito su se stessi con il suicidio, la droga, l’alcool. Erano certi che neppure una chiesa-matrigna, cieca e sorda alla loro disperazione, avrebbe potuto restituire loro la gioia di vivere?
2- E se invece di un incontro segreto, avessi invitato nello stadio le oltre diecimila vittime dichiarate, questo fatto non avrebbe incoraggiato tutte le altre a venire allo scoperto? E se ti fossi fatto aiutare dai 5mila preti pedofili a lavare loro i piedi? E se poi avessi fatto imbandire un banchetto? Non sarebbe stato il segno più efficace della celebrazione del perdono? (Secondo certe proiezioni non c’è stadio capace di contenere le centomila vittime presunte...)
Doveroso mescolare le tue lacrime con quelle delle vittime, ma queste dichiarano che non basta piangere, ci vogliono azioni concrete, fatti nuovi. Per esempio: non premiare il card. Law con il titolo di arciprete di s. Maria maggiore; processare e destituire i vescovi responsabili della diffusione dell’infezione; ascoltare i laici, coinvolgerli nella gestione della parrocchia e dei beni ecclesiastici. Meglio ancora, tornare alle origini: i preti siano solo degli anziani di provata saggezza.
3- L’incontro con il presidente Bush fa pensare ad un Papa "americanizzato" più che globalizzato. E se invece di stringere una mano insanguinata, avessi posato con l’ultimo candidato alla pena di morte, quale brivido evangelico avrebbe invaso il mondo? E se poi avessi celebrato il "Vangelo della vita" nel braccio della morte del più grande carcere statunitense? Non è forse vero che il presentarsi sulla scena del mondo come capo di Stato non può che indurre a inevitabili quanto intollerabili compromessi? Te lo immagini un Cristo che posa sorridente con Erode o con Nerone?
4- Se il pastore chiama a raccolta solo le pecorelle che sono nel recinto; se cerca il loro plauso e applauso; se coltiva il loro servilismo, non rischia di ampliare il mito del "fuhrer religioso"? Se invece di una popolarità gonfiata ad arte, al costo di 20 dollari per gadget; se invece di accarezzare il vezzo popolare che mette sullo stesso piano rock star, politici, capi religiosi, tu avessi dato un segno profetico, celebrando nel Bronx, in una periferia, in un nosocomio, in un raduno di afro-americani? Oh la lezione del Cristo, che fa il suo ingresso trionfale a Gerusalemme in groppa ad un asinello! Che presa in giro dei generali che celebravano i loro sanguinosi trionfi entrando in città a cavallo, con i trofei degli schiavi ed i bottini di guerra! Perché presentarsi ancora con insegne imperiali, bardamenti medioevali, cui hanno rinunciato anche i capi di Stato? Viene forse sminuito lo spessore morale del Dalai Lama quando si presenta con il vestito della semplicità?
5- E’ bene ricordare le "ingiustizie sofferte dalle native popolazioni americane e da quanti dall’Africa furono portati qui come schiavi". Ma perché non mettere il dito sulla piaga dell’american way of living, su uno stile di vita all’insegna dell’usa-e-getta, che diventa il modello di ogni popolo? Non una parola sull’inquinamento delle culture minori, sulle nuove invasioni hollywoodiane, i fast food, le armi personali, lo "spionaggio celeste", la tortura, le guerre stellari, ecc.
6- Se Cristo afferma di non essere venuto per i sani, ma per i malati, perché non incontrare drogati, carcerati, malati terminali, prostitute, aspiranti suicidi, gay e quant’altro? E se invece di chierici, vescovi e cardinali (non li incontri tutti i momenti nei sacri palazzi?), avessi riservato un incontro ufficiale alle madri, i cui figli sono stati uccisi in guerra? E se avessi ascoltato le donne, le ragazze madri, le vedove per sentire il loro parere su contraccettivi, staminali, feti prematuri, ecc.? Tu, professore e gran teologo, saprai tutto, ma non saprai cosa vuol dire essere donna e madre, vero? Ah, la mania clericale di predicare, insegnare, far piovere la "verità" dall’alto! Ma se non si ascolta, se non si accoglie il tormento degli altri, se non si condivide, come sarà possibile dare delle risposte ai disperati e ai perduti?
7 - Se all’ONU invece di richiamare le nazioni ai loro doveri, avessi chiesto perdono per aver imbavagliato tanti teologi, interrotto il dialogo, offeso le altre religioni, dichiarandole incapaci di salvezza? Forse che il Cristo è geloso, si vergogna di farsi aiutare, nel suo lavoro salvifico, da Budda, Muhammad, Gandhi, Luther King? Si parla di trionfo papale nel palazzo di vetro, ma fame e Nord/Sud ci sono andati stretti nel discorso ufficiale. Sei forse un papa filoccidentale, quasi sordo-muto per i popoli senza voce?
8- E se tu sapessi cosa vuol dire disperarsi per non poter dare da mangiare ai figli, non avresti detto una parola chiara a chi si dice cattolico e possiede capitali tali da finanziare anche il viaggio papale? (4 cittadini americani - Bill Gates, Paul Allen, Warren Buffet e Larry Eleison - detengono il PIL di 42 paesi poveri con una popolazione di 600 milioni di abitanti)? Come può il "padre di tutti" ignorare che 50 milioni di americani sono a rischio impoverimento? Proprio nel palazzo di vetro il segretario generale aveva invitato le nazioni ad arrestare l’aumento del prezzo dei generi alimentari di circa il 40% in un anno ([1]), che produrrà un vero «silenzioso omicidio di massa» (Jean Ziegler). "Più di tre miliardi di persone sono condannate ad una morte prematura. Lunedì 26 marzo la sinistra idea di trasformare gli alimenti in combustibile è stata definitivamente fissata come linea economica della politica estera statunitense" (Fidel Castro).
9- E se invece di esaltare ancora una volta la carità, avessi detto che i problemi si risolvono con la giustizia e con cambiamenti strutturali? Come esorti medici, infermieri e farmacisti a fare obiezione di coscienza contro tutto ciò che si oppone al "Vangelo della vita", perché non inviti ad obiettare contro le guerre preventive, i bombardamenti all’uranio impoverito, le bombe intelligenti, i morti civili (che i generali chiamano danni collaterali), i profughi (5 milioni), i mutilati (4 milioni), le vedove e gli orfani, i 12 milioni di senzatetto, i 12 milioni di traumatizzati, i 7/8 milioni di bambini di strada in America Latina?
10- Se a Ground Zero non ti fossi limitato a pregare, ma avessi richiamato una nazione onnipotente al rischio di essere erede della cultura del super-popolo, di una "nuova razza ariana", che tanta strage ha fatto? Non pesa su un terzo dei cattolici americani (60 milioni) la responsabilità di essere la nazione più armata (750 basi militari nel mondo), più arricchita, più sfruttatrice, più bellicosa del mondo?
Forse gli ingenui siamo noi, che pretendiamo, da un papa-professore, di parlare più da "padre", che da cattedratico, più con segni efficaci, che con raziocini astratti?
Tuo indegno figlio,
fausto marinetti
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Note
[1] Sono scoppiate "sommosse del pane" in Camerun, Egitto, Burkina Faso. Negli ultimi anni la domanda di cibo è cresciuta dell’8%, il prezzo è aumentato del 50%. E’ la globalizzazione dei morti di fame. Secondo l’ONU, circa 4 miliardi vivono sotto il limite di sopravvivenza: 2 miliardi e 800 milioni dispone di 60 dollari mensili; 1 miliardo e 200 milioni di 30 dollari; un miliardo gli analfabeti (tre quarti sono donne; 27 milioni vivono in situazione di schiavitù; 200 milioni per il commercio sessuale; Nel mondo ogni anno muoiono di fame da 5 a 20 milioni di persone. Secondo il World Food Programme (2001), sul pianeta c’è cibo sufficiente per l’intera popolazione mondiale. Ma nonostante ciò la fame affligge ancora una persona su sette. In Europa e Stati Uniti si spendono 17 miliardi di euro per gli animali domestici. Ne bastano 13 per garantire salute e alimentazione in tutto il mondo.
Mercoledì, 23 aprile 2008
mercoledì 9 aprile 2008
Volto Santo
Non mischiamo il sacro col profano.
Cosa c’entra Cristo con le miserie terrene?
Queste ed altre sono le espressioni di chi si straccia le vesti quando il figlio di Dio è tirato per la tunica, e coinvolto nelle faccende terrene.
Una rivoluzione copernicana, un rovesciamento dell’insegnamento di Gesù di Nazareth. Non sono credente ma lo sono stato, qualcosa mi sembra di ricordarlo…ricordo infatti qualcosa a proposito i un Cristo che si è fatto uomo. Ma ci hanno pensato gli uomini stessi a riportarlo prepotentemente alla sua vocazione di nascita. Mi ricordo di un Cristo nato in una stalla, un Cristo che mangiava, beveva, sudava come gli altri. Si sporcava le mani, nessuno più di lui ha mischiato il sacro col profano.
Ed ecco l’iconografia cristiana, dove l’agnello di Dio volge sempre gli occhi al cielo…ma quando mai! Come Aristotele nella Scuola d’Atene Cristo aveva gli occhi ben piantati sulla terra, cercando di ficcare nelle zucche vuote dei suoi contemporanei che “il sabato è fatto per l’uomo, e non viceversa”.
Ma un Cristo così, sudato, con le mani sporche e lo sguardo fisso sulle miserie terrene, non fa comodo ai cristiani. Perché costringerebbe anche loro a guardare proprio dove non vogliono. Come si fa a sopportare la propria corruzione con Cristo che ti tiene gli occhi addosso? Molto meglio che guardi verso l’alto, che sia per interrogare il cielo, o per sfuggire la vista della lordura terrena.
Cosa c’entra Cristo con le miserie terrene?
Queste ed altre sono le espressioni di chi si straccia le vesti quando il figlio di Dio è tirato per la tunica, e coinvolto nelle faccende terrene.
Una rivoluzione copernicana, un rovesciamento dell’insegnamento di Gesù di Nazareth. Non sono credente ma lo sono stato, qualcosa mi sembra di ricordarlo…ricordo infatti qualcosa a proposito i un Cristo che si è fatto uomo. Ma ci hanno pensato gli uomini stessi a riportarlo prepotentemente alla sua vocazione di nascita. Mi ricordo di un Cristo nato in una stalla, un Cristo che mangiava, beveva, sudava come gli altri. Si sporcava le mani, nessuno più di lui ha mischiato il sacro col profano.
Ed ecco l’iconografia cristiana, dove l’agnello di Dio volge sempre gli occhi al cielo…ma quando mai! Come Aristotele nella Scuola d’Atene Cristo aveva gli occhi ben piantati sulla terra, cercando di ficcare nelle zucche vuote dei suoi contemporanei che “il sabato è fatto per l’uomo, e non viceversa”.
Ma un Cristo così, sudato, con le mani sporche e lo sguardo fisso sulle miserie terrene, non fa comodo ai cristiani. Perché costringerebbe anche loro a guardare proprio dove non vogliono. Come si fa a sopportare la propria corruzione con Cristo che ti tiene gli occhi addosso? Molto meglio che guardi verso l’alto, che sia per interrogare il cielo, o per sfuggire la vista della lordura terrena.
mercoledì 2 aprile 2008
Giustizia: Caniato (Cei); nuovo Codice e misure alternative
Riporto questo intervento alla faccia di chi sostiene che sono prevenuto contro tutto ciò che viene dal mondo della chiesa:
Asca, 1 aprile 2008
Con mille nuovi detenuti ogni mese, le carceri italiane stanno di nuovo scoppiando proprio come prima dell’indulto: la denuncia arriva da mons. Giorgio Caniato, che per la Cei ricopre l’incarico di Ispettore Generale dei Cappellani Italiani.
In vista delle prossime elezioni, mons. Caniato, che è stato anche cappellano di San Vittore a Milano, non arriva a chiedere un nuovo indulto. "Piuttosto serve una riforma del Codice Penale, con la depenalizzazione di molti reati, e il potenziamento delle misure alternative al carcere, come l’affidamento ai servizi sociali".
Anche se, aggiunge, "molti parlamentari, non faccio nomi, si sono fatti eleggere promettendo amnistie e condoni e poi, quando è arrivato Mastella e ha fatto l’indulto, tutti si sono tirati indietro e hanno fatto finta di non esserci mai stati, oppure hanno tirato fuori dei numeri che non rispondono alla realtà".
"Non è assolutamente vero - si accalora - che se la gente delinque è colpa dell’indulto. La maggior parte dei detenuti sono nuovi, pochissimi i recidivi". "Sono impressionato - spiega - dalla perdita di identità morale della società: chi arriva in carcere non sono solo i poveracci, quelli che trasgrediscono la legge per motivi economici, che sarebbero anche giustificati a rubare se muoiono di fame, ma i ricchi.
C’è una grandissima crescita dei reati in famiglia, sulla strada, tra i giovani. In tanti anni non ho mai visto una situazione del genere: ho avuto solo due ragazzi dentro per omicidio quando, dal ‘59 al ‘73, sono stato cappellano del carcere minorile "Beccaria". Adesso i ragazzi che arrivano in carcere si mettono a piangere, non si rendono conto di essere responsabili della violenza. E si è persa completamente ogni fiducia nella giustizia e nella legalità".
Anche la magistratura, aggiunge mons. Caniato, ha la sua grande parte di colpa in questa crisi: "Quando ero a San Vittore, durante Mani Pulite, ho conosciuto tanta casi di gente che è finita dentro ed poi stata rimandata a casa perché non aveva fatto niente. È vero che la giustizia è politicizzata". Poi, conclude, "basta con i processi mediatici come quelli di Cogne o di Erba: non dico che è colpa dei magistrati la crisi della nostra società, ma che i magistrati dovrebbero occuparsi delle indagini invece di fare conferenze stampa, altrimenti si perde credibilità e serietà".
In vista delle prossime elezioni, mons. Caniato, che è stato anche cappellano di San Vittore a Milano, non arriva a chiedere un nuovo indulto. "Piuttosto serve una riforma del Codice Penale, con la depenalizzazione di molti reati, e il potenziamento delle misure alternative al carcere, come l’affidamento ai servizi sociali".
Anche se, aggiunge, "molti parlamentari, non faccio nomi, si sono fatti eleggere promettendo amnistie e condoni e poi, quando è arrivato Mastella e ha fatto l’indulto, tutti si sono tirati indietro e hanno fatto finta di non esserci mai stati, oppure hanno tirato fuori dei numeri che non rispondono alla realtà".
"Non è assolutamente vero - si accalora - che se la gente delinque è colpa dell’indulto. La maggior parte dei detenuti sono nuovi, pochissimi i recidivi". "Sono impressionato - spiega - dalla perdita di identità morale della società: chi arriva in carcere non sono solo i poveracci, quelli che trasgrediscono la legge per motivi economici, che sarebbero anche giustificati a rubare se muoiono di fame, ma i ricchi.
C’è una grandissima crescita dei reati in famiglia, sulla strada, tra i giovani. In tanti anni non ho mai visto una situazione del genere: ho avuto solo due ragazzi dentro per omicidio quando, dal ‘59 al ‘73, sono stato cappellano del carcere minorile "Beccaria". Adesso i ragazzi che arrivano in carcere si mettono a piangere, non si rendono conto di essere responsabili della violenza. E si è persa completamente ogni fiducia nella giustizia e nella legalità".
Anche la magistratura, aggiunge mons. Caniato, ha la sua grande parte di colpa in questa crisi: "Quando ero a San Vittore, durante Mani Pulite, ho conosciuto tanta casi di gente che è finita dentro ed poi stata rimandata a casa perché non aveva fatto niente. È vero che la giustizia è politicizzata". Poi, conclude, "basta con i processi mediatici come quelli di Cogne o di Erba: non dico che è colpa dei magistrati la crisi della nostra società, ma che i magistrati dovrebbero occuparsi delle indagini invece di fare conferenze stampa, altrimenti si perde credibilità e serietà".
domenica 30 marzo 2008
Applicazioni della RebT per lo sviluppo di un pensiero razionale-adulto
1. Introduzione
In un lavoro[1] di circa un anno fa mi posi un problema relativo alla questione della ri-educazione di detenuti adulti. Una questione di natura fondamentalmente etica, inerente il significato profondo del termine ri-educare e della sua incompiutezza semantica. Ri-educare a cosa? E perché? Il problema principale che intendevo sollevare, dunque, era attinente la valenza etica di ogni intervento pedagogico, nell’ottica di un approccio critico e non prono rispetto al sistema di valori dominante. In sintesi, riflettendo sulla contraddittorietà della cultura ri-educativa della pena nel rivolgersi a soggetti svantaggiati, individuai due possibili alternative:
1. Orientare il soggetto attivo/passivo dell’intervento pedagogico verso l’accettazione del sistema di valori dominante indipendentemente dalla sua natura di oppresso
2. Sostenere l’oppresso nell’acquisizione della consapevolezza della sua oppressione e nella conseguente volontà rivendicativa, col rischio di rinforzare ulteriormente la sua condizione di marginalità
Una questione che ritenei, e tuttora ritengo, aporetica. E tuttavia, per non fare la fine dell’Asino di Buridano, individuai una possibile via d’uscita nella sostituzione del termine educatore con quello di ri-socializzatore. In termini operativi: fornire al soggetto deviante gli strumenti culturali e pratici necessari a potersi reinserire adeguatamente nel contesto sociale. Tra gli strumenti culturali indicai la formazione ad un pensiero critico, ovvero:
a) soggettivamente: capacità di pensare in maniera logica, sviluppando inferenze corrette
b) oggettivamente: capacità di leggere la realtà, acquisendo al contempo consapevolezza del proprio ruolo nella società
In questo nuovo lavoro vorrei sviluppare più dettagliatamente questo argomento, prescindendo completamente da ogni implicazione etica e intendendo il pensiero critico come pensiero adulto; in particolare, vorrei focalizzare l’attenzione su due questioni essenziali:
1) Cosa significa pensare in maniera adulta
2) Come è possibile sviluppare un pensiero adulto
La ragione di questa linea di ricerca, tesa a sottolineare il pensiero razionale come conditio sine qua non del pensiero adulto, trova la sua giustificazione nella volontà di evidenziare l’identità di un processo ri-socializzante con quello di crescita.
Il processo ri-educativo o ri-socializzante trova dunque la sua ratio nel favorire processi di crescita orientati verso un obiettivo inteso come adultità, condizione che – dal punto di vista cognitivo – si identifica con lo sviluppo di un pensiero razionale (pensiero adulto).
2. Il sorite dell’età adulta
Definire l’età adulta è un’operazione complessa e delicata. Forse impossibile.
Impossibile nella misura in cui si pretenda di cristallizzare in un generalizzazione, più o meno dettagliata, qualcosa a cui è possibile accostarsi soltanto per approssimazione, senza poter circoscrivere con esattezza i confini semantici dell’espressione.
Quello di adultità è un concetto la cui esplicazione richiede un approccio multidisciplinare, che tenga conto della maturità biologica come di quella psicologica, e che non può essere avulso dal contesto sociale, i cui parametri di valutazione e riferimento condizionano la percezione di ciò che è adulto.
Nessuno è infante oggi, e adulto domani. Quello di adultità è un predicato che in logica viene definito “sfumato”, ovvero non riconducibile ad una contrapposizione netta del tipo – adulto/non adulto -. Quello dell’uomo adulto è un sorite, ovvero un paradosso che deriva proprio dall’impiego di predicati sfumati[2]. In termini formali, non esiste un età n indicativa di un “età non adulta” tale che n+1 sia invece sintomatica di un “età adulta”.
Il nostro essere è anche ciò che siamo stati e ciò che, in potenza, saremo. Apparteniamo a fasi diverse della nostra vita, e così l’età adulta non è un compartimento stagno. Vogliamo e dobbiamo essere approssimativi nell’individuare i confini temporali così come quelli psicologici che circoscrivono il concetto di “età adulta”.
In particolare, ai fini di questo lavoro, ciò che preme individuare è il legame tra l’idea di adultità e quella di pensiero adulto. Se tra le varie componenti cui necessariamente si deve ricorrere per individuare e astrarre dal flusso della vita il concetto di “età adulta”, ne esiste una di natura squisitamente logica. Un modo di pensare adulto, come si diceva nell’introduzione di questo scritto.
Prima di avventurarsi in riflessioni così complesse, è bene ripercorrere brevemente la mappa concettuale delle principali teorie ed elaborazioni su ciò che è l’età adulta[3].
Il contributo di Sigmund Freud[4] e della psicanalisi è per lo più indiretto, nel senso che l’età adulta non è stata oggetto dell’elaborazione teorica di questa scuola. Freud ha tuttavia mostrato la presenza del mondo infantile nella psiche dell’uomo, intendendola però come l’essenza nevrotica di una tendenza regressiva. La buona adultità dunque si concretizza nella maturazione che si traduce in capacità di amare e lavorare.
L’analisi freudiana va a scavare nell’inconscio del paziente alla ricerca di quegli elementi di permanenza di pensiero infantile che inibiscono il passaggio alla normalità. Per normalità si intende l’adultità.
Nel pensiero di Freud sull’adultità è riscontrabile quasi una demonizzazione della dimensione infantile di cui non ci sono tracce in gran parte dei suoi epigoni, in particolare Melanine Klein e Gustav Jung. Quest’ultimo autore, in particolare, ha fornito un notevole contributo alla definizione dell’età adulta.
Jung[5] individua due archetipi in particolare, quello del puer e quello del senex. Il primo è l’immagine idealtipica dell’immaturità, identificata dall’inquietudine e l’impulso alla scoperta; il secondo è ovviamente il prototipo della maturità, che si associa ai concetti di responsabilità e solidità. L’età adulta è dunque nella concezione di Jung il luogo di incontro/scontro di queste due dimensioni, che prevalgono alternamente, e il cui bilanciamento, equilibrio, è rivelatore di maturità.
L’età adulta si realizza attraverso il cambiamento, il cui processo ricalca la concezione dialettica hegeliana, per cui l’adultità altro non è che sintesi (ovvero superamento) dell’opposizione dei contrari: puer e senex.
Erikson[6] supera la concezione psicanalitica, evidenziando la non riconducibilità dello sviluppo del soggetto adulto a soli elementi di natura libidica e, di contro, l’importanza ai fini della sua definizione dell’interrelazione con eventi inerenti alla sua socializzazione. Dunque, vi sono tre processi fondamentali e complementari che caratterizzano l’esistenza dell’uomo:
· Elemento biologico (soma)
· Elemento psichico (psiche)
· Elemento comunitario (ethos)
Questi elementi sono sempre tutti presenti all’interno di un individuo, e ognuno di essi è preminente rispetto agli altri in alcune fasi dell’esistenza. Il principio che regola questo processo interattivo è l’epigenesi.
Erikson può così individuare 8 diversi stadi del ciclo vitale; l’età adulta, compresa approssimativamente tra i 40 e 60 anni, è caratterizzata da due concetti fondamentali:
1. Quello di generatività. Elemento focale dell’età adulta, può essere declinato in diverse modalità creative, che l’oggetto sia un altro essere vivente, un’idea, una tecnica, una cosa.
2. Quello di cura. Strettamente connesso al concetto di responsabilità, è l’altra attitudine tipica dell’età adulta.
Per Alfred Adler[7] l’Io adulto è caratterizzato da una lotta costante, effetto inevitabile delle interrelazioni sociali, con “complessi di inferiorità”, elementi tipici della psiche infantile nel suo confrontarsi con il genitore. Una vera e propria invidia dell’adulto, dunque, motore propulsore di crescita e cambiamento, che nell’età adulta dovrà risolversi, perché possa parlarsi di un’adultità sana, in un sentimento di comunità in grado di consentire una buona integrazione sociale. Tuttavia Adler non considera mai l’adultità un processo compiuto; piuttosto si tratta di una tensione verso un ideale dell’Io.
Il tema dell’incompiutezza sarà centrale anche nella riflessione del filone di ricerca definito come “psicologia esistenziale”, la cui matrice filosofica è riconducibile al pensiero di autori come Heidegger, Husserl, Sartre. In Husserl[8] in particolare è fondamentale il concetto di approssimazione, che rimanda a quello di incompiutezza e trova coerente legittimazione nei presupposti filosofici dell’approccio fenomenologico (da fainómenon, apparenza) per cui non è il mondo reale ad essere oggetto di interpretazione, bensì le sue manifestazioni appariscenti.
Particolarmente importanti ai fini di questo lavoro sono gli studi di R. Gould[9]: questi definisce la crescita come una trasformazione, e lo sviluppo umano come emancipazione da una serie di false idee che determinano la cosiddetta coscienza infantile e inibiscono la crescita. Il processo di cambiamento dunque si realizza nel distacco dalle sicurezze indotte dalle illusioni infantili, nella direzione di un’accettazione di se stessi e dei propri limiti. In pratica, l’adultità sana prevede lo sviluppo di un adeguato senso della realtà.
In sostanza, da questa breve panoramica sulle principali teorie inerenti l’età adulta, è interessante desumere alcuni concetti fondamentali:
· L’adultità come processo continuo di crescita orientato ad una condizione di maggiore adeguatezza alla realtà
· Il pensiero adulto come processo cognitivo orientato ad una maggiore capacità di adeguatezza alla realtà
3. Definizione di un pensiero adulto: il concetto di doverizzazione della Rational Emotive Behavior Therapy
Nel tentativo di sviluppare una riflessione che potesse approfondire il concetto di verbalizzazioni irrazionali della Rational Emotive Behavior Therapy, ho valutato le cosiddette doverizzazioni come delle inferenze formulate nella modalità di un’implicazione materiale, il contenuto delle cui premesse fosse un esempio di pensiero infantile. Ritengo la formalizzazione in strutture logiche delle doverizzazioni della RebT un’ ottima modalità di lavoro riguardo il riconoscimento del pensiero infantile e il suo superamento.
La Rebt (Rational Emotive Behavior Therapy) è un modalità terapeutica cognitivista/comportamentale ideata e sviluppata nei suoi principi fondamentali dal Dott. Albert Ellis[10]. Elemento distintivo - e particolarmente rilevante ai fini del nostro lavoro - di questo approccio scientifico e culturale è l’importanza delle verbalizzazioni, ovvero di ciò che diciamo a noi stessi, ai fini della nostra condotta di vita e della nostra stessa felicità. Ellis sostiene che qualunque evento negativo abbia caratterizzato, o addirittura traumatizzato la nostra vita, se continua a tormentarci anche quando l’evento si è consumato, è in virtù di una nostra verbalizzazione interiore. Attraverso questa verbalizzazione, noi consentiamo all’evento negativo di continuare a produrre i suoi effetti nefasti sulla nostra personalità. Proviamo a portare un esempio:
Luigi è un bambino di 13 anni, e frequenta la terza media. E’ sempre stato uno dei primi della classe, sin dalle elementari. Tuttavia, quel giorno l’insegnante di matematica ha deciso di fare un compito in classe a sorpresa. Luigi non è preparato e rischia di prendere il suo primo brutto voto, proprio l’anno in cui ci sono gli esami di terza media. La sua compagna di banco Sara, invece, sembra molto spedita nello svolgere le complesse operazioni algebriche. Luigi decide che la cosa migliore da fare, al momento, è cercare di copiare. Ma non essendo pratico, viene facilmente scoperto dalla professoressa. Questa strappa il compito dalle sue mani, obbligandolo in questo modo a consegnare praticamente in bianco. Inoltre, l’insegnante non manca di esprimergli tutta la sua delusione e il suo sdegno, davanti a tutta la classe. Luigi trova la situazione insopportabile, non ha il coraggio di alzare lo sguardo dal banco per non incontrare gli occhi della professoressa e dei suoi compagni. L’evento è per lui talmente significativo, che ne porterà i segni fino in età adulta, sotto forma di una certa insicurezza o disagio quando è a rischio di disapprovazione.
L’emozione che Luigi ha vissuto nel giorno in questione può essere definita di vergogna, imbarazzo, o più semplicemente paura, timore di scontrarsi con la disapprovazione degli altri. Ciò che tuttavia ha permesso a questo malessere di continuare ad essere presente nella vita di Luigi, al punto di condizionarlo anche in età adulta è, secondo i principi della Rebt, ciò che Luigi ha detto a se stesso in quel momento, strutturando il pensiero nella forma di una massima e inserendola nella propria filosofia di vita.
Probabilmente Luigi nel momento della vergogna si è parlato in questo modo:”tutti mi stanno disapprovando; è una sensazione orribile, insopportabile, e non voglio doverla provare mai più!”. Quando ci accade un evento spiacevole, se lo “registriamo” in maniera irrazionale, è come se contraessimo una malattia. Per fortuna è tutt’altro che impossibile guarirne. Luigi ha contratto questo morbo, poiché ogni qualvolta si trova a dover affrontare una disapprovazione, vive la cosa come “orribile e insopportabile”; ma, peggio ancora, è preda di notevoli ansie quando semplicemente rischia la disapprovazione, diventando così inibito e insicuro.
Per riconoscere le nostre verbalizzazioni negative, è particolarmente efficace lo schema A-B-C, introdotto sempre da Ellis. A sta ad indicare l’evento attivante, C il sintomo, l’effetto. B è l’elemento che congiunge A e C, ovvero la verbalizzazione. Lasciamo in pace Luigi e facciamo un altro esempio:
Antonello ha un’avventura con Elisabetta, una bella ragazza che frequenta la sua stessa comitiva. Le cose però non vanno bene, poiché quella sera Antonello, forse perché particolarmente stanco o emozionato, non riesce ad avere un’erezione. Antonello è turbato, ma sa che si tratta di un episodio isolato, per cui non fa drammi e decide di uscire ancora con Elisabetta. Ma Elisabetta si confida con le amiche, che maliziosamente fanno arrivare la voce ai ragazzi. Antonello diventa così oggetto di doppi sensi e allusioni; lui si mostra sicuro e sta allo scherzo, ma in realtà è disperato, al punto di arrivare a pensare al suicidio.
Questo piccolo racconto ci offre lo spunto per evidenziare, attraverso lo schema A-B-C, un esempio di verbalizzazione irrazionale e uno di verbalizzazione razionale. Nel primo caso:
A: evento attivante = prese in giro degli amici sulla sua scarsa virilità
C: sintomo = disperazione, desiderio di farla finita
Bi: verbalizzazione irrazionale = “i miei amici mi considerano un impotente; questa è una cosa assolutamente insopportabile, non è possibile vivere in questo modo!”
Bi rappresenta dunque la verbalizzazione irrazionale. L’importanza che Antonello dà all’opinione dei propri amici, almeno riguardo il tema mascolinità, è tale da far si che l’evento A possa provocare C. Per molte altre persone, A non avrebbe potuto mai condurre a C. Ma andiamo avanti, perché come ho detto il racconto precedente offre ad Antonello l’opportunità di mostrare anche una forma di pensiero più razionale:
A: evento attivante = Defaiance con Elisabetta
C: sintomo = dispiacere, leggero turbamento
Br: verbalizzazione razionale = il fatto che abbia avuto un problema con Elisabetta, non fa di me un impotente. Uscendo ancora con lei, sarà evidente che si è trattato di un episodio isolato.
In questo secondo caso, Antonello si mostra molto razionale ed equilibrato; infatti il sintomo è quello appropriato, ovvero un normale dispiacere. La ragione per cui in un caso Antonello riesce ad essere così razionale, e in un altro invece esattamente l’opposto, è probabilmente da cercare nell’importanza che egli conferisce all’opinione degli amici, e quindi in un’ulteriore verbalizzazione.
Mario Di Pietro nell’edizione italiana del testo di Ellis L’Autoterapia Razionale Emotiva[11], evidenzia come le più frequenti idee irrazionali possano essere sottese al concetto di Doverizzazione. Di Pietro sintetizza così:
· Doverizzazioni su se stessi («Io devo agire bene ed essere approvato da tutte le persone per me significative, altrimenti sono un assoluto incapace ed è terribile»).
· Doverizzazioni sugli altri («Gli altri devono trattarmi bene e agire come io penso che debbano assolutamente agire, altrimenti sono delle carogne, dei mascalzoni e meritano di pagarla»).
· Doverizzazioni sulle condizioni di vita («Le cose che mi succedono devono essere proprio come io pretendo che siano e tutto deve essere facile e gradevole, altrimenti la vita è insopportabile»).
Ma cosa sono le doverizzazioni? Perché sono così presenti e influenti nel nostro modo di ragionare tanto da essere fonte per noi di ansie, depressioni ecc?
La doverizzazione altro non è che la trasposizione di un principio di necessità. “Io devo agire bene” è in realtà “E’ necessario che io agisca bene”; “Le cose devono andare in un certo modo” va letto come “è necessario che le cose vadano in un certo modo”. Non è una specificazione da poco. Le idee irrazionali trovano linfa e si stratificano nel nostro sistema di convinzioni proprio perché prendono la forma di assiomi. Tutte le nostre convinzioni si fondano su assiomi, da cui derivano corollari di varia natura. Quello che ci interessa stabilire è che le idee irrazionali si manifestano e traggono la loro forza persuasiva dall’essere assimilate come leggi, in particolare leggi di necessità.
In logica si parla di implicazione materiale. Ovvero, la forma: se…allora…( Se piove, allora la terra si bagnerà) [inserire nota più precisa sugli effettivi valori di verità dell’implicazione materiale)
Anche le nostre doverizzazioni irrazionali hanno questa struttura. Se x allora y. Pur se non esplicitamente presenti nella verbalizzazione, le doverizzazioni hanno un loro fondamento, la giustificazione razionale per cui da essa, per implicazione materiale, si perviene a y, ovvero la doverizzazione.
Le doverizzazioni possono dunque essere spiegate come delle implicazioni materiali infondate, o meglio fondate su un elemento di volontà. La doverizzazione “Le cose devono andare come io pretendo che siano” è dunque:”siccome pretendo che le cose vadano in un certo modo, allora devono andare proprio in quel modo”. Ancora più precisamente, nell’assumere forma assiomatica:”se io voglio che le cose vadano in un certo modo, allora devono andare in quel modo”.
Proponiamo in forma logica l’espressione:
«Le cose che mi succedono devono essere proprio come io pretendo che siano e tutto deve essere facile e gradevole, altrimenti la vita è insopportabile».
Riformulata in:
«Se voglio/desidero che le cose vadano in un certo modo, allora devono andare in quel modo, altrimenti la vita è insopportabile»
L’ultima espressione (“la vita è insopportabile”) rappresenta un altro errore nel trasformare un proprio vissuto in un assioma. Ma andiamo a simbolizzare:
CNCpqr
Nella simbologia di Ukasievick.
Ovvero:”Se non si da il caso che p implichi q, allora r”
Dove: p=voglio che le cose vadano in un certo modo; q=le cose vanno in un certo modo; r=la vita è insopportabile
Lo formula è corretta da un punto di vista logico. Dando per buono che r sia davvero una conseguenza necessaria del fatto che p non implichi q, allora il risultato sarà sempre e inevitabilmente r, poiché p non implica mai q.
La pretesa di far derivare qualcosa che riguardi il mondo esterno (ma anche noi stessi!) dalla nostra semplice volontà, dal nostro desiderio, è un modo di pensare puerile in senso stretto, poiché riproduce l’attitudine dei bambini a considerare il mondo esterno come un prolungamento della propria volontà. Le frustrazioni a cui vanno incontro negli anni servono a formare il principio di realtà.
Dunque, riassumendo, questa tipologia di verbalizzazione irrazionale (doverizzazione) è un ragionamento della forma dell’implicazione materiale, per cui un desiderio dovrebbe comportare una condizione oggettiva, pena uno stato di malessere.
Attraverso questi schema interpretativo, ovvero il riconoscimento delle doverizzazioni/leggi di necessità, è dunque possibile riconoscere le forme di pensiero infantile. E’ mia convinzione inoltre, e sono persuaso di poterlo argomentare in questo lavoro, che lo schema A-B-C della RebT sia un efficace strumento utile al progressivo e continuo superamento del pensiero infantile in favore di un pensiero adulto e, dunque, una più adeguata adultità.
Una riflessione sulla natura delle idee/verbalizzazioni irrazionali può essere infatti utile ai fini di una maggiore consapevolezza di esse, che poi è il primo passo per la loro risoluzione. Questo avviene attraverso una riformulazione dell’idea in una forma razionale e una serie di tecniche di comportamento il cui approfondimento tuttavia esula dai fini di questo lavoro.
Ovviamente i desideri non possono mai essere legati alla loro realizzazione mediante un rapporto di causa-effetto, un legame “necessario”. Anche considerare il malessere come conseguenza inevitabile, “necessaria” della mancata realizzazione del proprio desiderio, è un atto arbitrario, che nulla ha a che fare con la logica. Convincendosi di questo, si può cominciare a lavorare per sostituire la verbalizzazione irrazionale infantile.
“Se non riuscirò a superare brillantemente l’esame, avrò dimostrato di essere un buono a nulla, e per me ciò sarà insopportabile”
Significa in realtà:
“Siccome non voglio passare per un buono a nulla, devo superare brillantemente l’esame. Se non vi riuscirò, non potrò sopportarlo”
Formulata correttamente è:
“Siccome non voglio passare per un buono a nulla, desidero superare brillantemente l’esame. Se non vi riuscirò, sarà molto dura”
Sono intervenuto sulla verbalizzazione in due modi diversi; nel primo caso, ho sostituito la doverizzazione con un atto di volontà, e non più di necessità oggettiva. Nel secondo caso, la forma di “implicazione materiale” è intatta, ma è il suo contenuto ad essere modificato. Non è vero infatti che sarà insopportabile, ma solo molto duro da sopportare.
E’ possibile desumere da quanto esposto una serie di insight:
1) L’adultità rappresenta una tensione verso una condizione di maggiore adeguatezza alla realtà
2) La capacità di elaborare un pensiero adulto è condizione ineludibile di una buona adultità
3) Il pensiero infantile si esprime nella forma di leggi di necessità, ovvero rapporti di causa-effetto tra la propria volontà e la realtà oggettiva, la cui mancata realizzazione provoca frustrazione. Il pensiero adulto si sviluppa attraverso un progressivo distacco da questa modalità di giudizio.
Lo schema A-B-C della RebT, attraverso la messa in discussione e risoluzione delle doverizzazioni/leggi di necessità, è un efficace strumento per lo sviluppo di un pensiero adulto.
4. Rinforzi della società al pensiero infantile: pensiero adulto e pensiero critico
Il pensiero infantile non è un problema esclusivamente individuale, bensì di natura fortemente sociale. La cultura di massa e la comunicazione mediatica evidenziano spesso una spiccata attitudine (colposa o dolosa) al pensiero puerile, rinforzando così le strutture di pensiero imperniate su false leggi di necessità.
L’esempio più illuminante è quello della tautologia “volere è potere”. E’ uno slogan di straordinario impatto e una vera e propria verbalizzazione infantile sociale. E’ un teorema, foriero di innumerevoli doverizzazioni. Poniamo un esempio:
Antonio ha completato i suoi studi di giurisprudenza in maniera brillante, e desidera ardentemente diventare un magistrato. Prepara dunque con meticolosità le materie d’esame del concorso, impegnandosi con tenacia e dedizione. Purtroppo però, nonostante l’impegno profuso, non riesce a superare le prove scritte del concorso. L’esito negativo dell’esame conduce Antonio ad un profondo stato di avvilimento, tale da influire negativamente sui suoi studi e pregiudicando altre possibilità di cui avrebbe potuto giovarsi.
Il Prof. Albert Ellis avrebbe immediatamente contestato l’espressione “l’esito negativo dell’esame conduce Antonio ad un profondo stato di avvilimento […]”, individuando nelle sue verbalizzazioni inerenti l’insuccesso, e non nell’insuccesso stesso, la causa reale del suo malessere. Ma procediamo con ordine attraverso la consueta modalità espositiva:
A: evento attivante = esito negativo delle prove scritte del concorso
C: sintomo = avvilimento, diminuzione di autostima
Bi: verbalizzazione irrazionale/infantile – “volere è potere”, io non sono riuscito a superare l’esame. Questo vuol dire che il problema sono io, sono un fallito e questo significa che non merito nulla.
La verbalizzazione infantile di Antonio trova uno straordinario rinforzo nella massima sociale che identifica volontà e conseguimento dell’oggetto della volontà.
La tautologia “volere è potere” è pensiero infantile allo stato puro, la teorizzazione di un’incongruenza logica. In questo caso il disputing prende la forma del cosiddetto pensiero critico, e la discussione delle verbalizzazioni irrazionali diventa analisi di una proposta culturale sociale.
Non è necessario in questa sede dilungarsi in una disamina della tautologia volere è potere; quanto scritto fino ad ora è sufficiente ad evidenziarne la puerilità. Nel caso specifico di Antonio, la verbalizzazione razionale a compimento di un efficace disputing sarà:
Br: verbalizzazione razionale/adulta = volere e potere sono due cose diverse, non solo non si identificano ma possono addirittura essere inconciliabili. Nonostante l’impegno profuso non ho superato l’esame; le ragioni possono essere molteplici, ma nessuna giustifica un mio calo di autostima.
In sostanza, il cosiddetto pensiero critico, declinato nella messa in discussione di principi culturali socialmente radicati, è una modalità di crescita e sviluppo del pensiero adulto.
Svelare e aggredire intellettualmente le costruzioni culturali infantili della società è un modo per sviluppare la propria adultità.
La cosa non riguarda soltanto gli adolescenti o i giovani, ma tutti gli individui di qualunque età, poiché come abbiamo evidenziato più volte, quello di adultità è uno stato mai del tutto realizzato. Alla luce di questa tesi, risalta maggiormente l’importanza e la portata culturale del concetto di educazione permanente.
Conclusioni
Educare e ri-educare sono due concetti molto diversi, e tuttavia accomunati dal medesimo obiettivo di favorire la crescita del soggetto attivo/passivo del rapporto educativo. Qualunque concezione pedagogica non può prescindere dalle seguenti considerazioni:
1) Ogni essere umano è un individuo in costante divenire
2) Il cambiamento di un individuo è positivo se orientato in direzione di una sua maggiore responsabilizzazione e acquisizione di consapevolezza; in sostanza, se riconducibile al concetto di crescita
3) La crescita è un processo costante, che accompagna la vita dell’individuo per tutta la sua durata
Dunque, lo stadio di adultità non è una fase della vita, ma soltanto un momento e un aspetto della crescita, un orizzonte verso il quale va orientato l’intervento di accompagnamento (che sia educativo o ri-socializzante) del discente.
Condizione essenziale per una buona adultità è la capacità di pensare in maniera adulta, ovvero in modo razionale. Ovviamente, così come l’adultità in generale, anche il pensiero adulto non rappresenta uno stadio definitivo dell’attività cognitiva, ma si sviluppa attraverso una costante contrapposizione dialettica alle forme di pensiero infantile.
Il metodo di discussione delle doverizzazioni irrazionali della RebT, è un ottimo strumento di lavoro per favorire lo sviluppo di un pensiero razionale.
In sostanza, la crescita di un individuo, dal punto di vista cognitivo, si realizza attraverso un processo dialettico di critica al pensiero puerile, sostituendo le doverizzazioni irrazionali con più appropriate asserzioni aderenti al principio di realtà.
[1] Scognamiglio D., La Filosofia in Carcere, in Universale/Singolare: La Politica del Benessere, Aperia ed., 2006
[2] V. anche Frixione M., Come Ragioniamo, Laterza, 2007
[3] V. anche Demetrio D., L’età adulta – teorie dell’identità e pedagogie dello sviluppo, Carocci ed., 2001
[4] Freud S., Al di là del principio del piacere, Boringhieri, Torino, 1977
[5] Jung C.G., Le diverse età dell’uomo, in Id., Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Einaudi, Torino, 1959
[6] Erikson E.H., I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Armando ed., Roma, 1984
[7] Adler A., La conoscenza dell’uomo, Mondatori, Milano, 1964
[8] Husserl E., Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologia, Einaudi, Torino, 1965
[9] Gould R.L., Transformations, Simon and Schuster, New York, 1978
[10] Ellis A., Ragione ed Emozione in Psicoterapia, a cura di C. De Silvestri, Astrolabio Ubaldini, 1989
[11] Ellis A., L’autoterapia razionale emotiva, a cura di M. Di Pietro, Centro Studi Erickson, 1993
Tratto da D. Scognamiglio, Scienze del pensiero e del comportamento - rivista di psicologia, pedagogia ed epistemologia delle scienze umane, aprile 2008
In un lavoro[1] di circa un anno fa mi posi un problema relativo alla questione della ri-educazione di detenuti adulti. Una questione di natura fondamentalmente etica, inerente il significato profondo del termine ri-educare e della sua incompiutezza semantica. Ri-educare a cosa? E perché? Il problema principale che intendevo sollevare, dunque, era attinente la valenza etica di ogni intervento pedagogico, nell’ottica di un approccio critico e non prono rispetto al sistema di valori dominante. In sintesi, riflettendo sulla contraddittorietà della cultura ri-educativa della pena nel rivolgersi a soggetti svantaggiati, individuai due possibili alternative:
1. Orientare il soggetto attivo/passivo dell’intervento pedagogico verso l’accettazione del sistema di valori dominante indipendentemente dalla sua natura di oppresso
2. Sostenere l’oppresso nell’acquisizione della consapevolezza della sua oppressione e nella conseguente volontà rivendicativa, col rischio di rinforzare ulteriormente la sua condizione di marginalità
Una questione che ritenei, e tuttora ritengo, aporetica. E tuttavia, per non fare la fine dell’Asino di Buridano, individuai una possibile via d’uscita nella sostituzione del termine educatore con quello di ri-socializzatore. In termini operativi: fornire al soggetto deviante gli strumenti culturali e pratici necessari a potersi reinserire adeguatamente nel contesto sociale. Tra gli strumenti culturali indicai la formazione ad un pensiero critico, ovvero:
a) soggettivamente: capacità di pensare in maniera logica, sviluppando inferenze corrette
b) oggettivamente: capacità di leggere la realtà, acquisendo al contempo consapevolezza del proprio ruolo nella società
In questo nuovo lavoro vorrei sviluppare più dettagliatamente questo argomento, prescindendo completamente da ogni implicazione etica e intendendo il pensiero critico come pensiero adulto; in particolare, vorrei focalizzare l’attenzione su due questioni essenziali:
1) Cosa significa pensare in maniera adulta
2) Come è possibile sviluppare un pensiero adulto
La ragione di questa linea di ricerca, tesa a sottolineare il pensiero razionale come conditio sine qua non del pensiero adulto, trova la sua giustificazione nella volontà di evidenziare l’identità di un processo ri-socializzante con quello di crescita.
Il processo ri-educativo o ri-socializzante trova dunque la sua ratio nel favorire processi di crescita orientati verso un obiettivo inteso come adultità, condizione che – dal punto di vista cognitivo – si identifica con lo sviluppo di un pensiero razionale (pensiero adulto).
2. Il sorite dell’età adulta
Definire l’età adulta è un’operazione complessa e delicata. Forse impossibile.
Impossibile nella misura in cui si pretenda di cristallizzare in un generalizzazione, più o meno dettagliata, qualcosa a cui è possibile accostarsi soltanto per approssimazione, senza poter circoscrivere con esattezza i confini semantici dell’espressione.
Quello di adultità è un concetto la cui esplicazione richiede un approccio multidisciplinare, che tenga conto della maturità biologica come di quella psicologica, e che non può essere avulso dal contesto sociale, i cui parametri di valutazione e riferimento condizionano la percezione di ciò che è adulto.
Nessuno è infante oggi, e adulto domani. Quello di adultità è un predicato che in logica viene definito “sfumato”, ovvero non riconducibile ad una contrapposizione netta del tipo – adulto/non adulto -. Quello dell’uomo adulto è un sorite, ovvero un paradosso che deriva proprio dall’impiego di predicati sfumati[2]. In termini formali, non esiste un età n indicativa di un “età non adulta” tale che n+1 sia invece sintomatica di un “età adulta”.
Il nostro essere è anche ciò che siamo stati e ciò che, in potenza, saremo. Apparteniamo a fasi diverse della nostra vita, e così l’età adulta non è un compartimento stagno. Vogliamo e dobbiamo essere approssimativi nell’individuare i confini temporali così come quelli psicologici che circoscrivono il concetto di “età adulta”.
In particolare, ai fini di questo lavoro, ciò che preme individuare è il legame tra l’idea di adultità e quella di pensiero adulto. Se tra le varie componenti cui necessariamente si deve ricorrere per individuare e astrarre dal flusso della vita il concetto di “età adulta”, ne esiste una di natura squisitamente logica. Un modo di pensare adulto, come si diceva nell’introduzione di questo scritto.
Prima di avventurarsi in riflessioni così complesse, è bene ripercorrere brevemente la mappa concettuale delle principali teorie ed elaborazioni su ciò che è l’età adulta[3].
Il contributo di Sigmund Freud[4] e della psicanalisi è per lo più indiretto, nel senso che l’età adulta non è stata oggetto dell’elaborazione teorica di questa scuola. Freud ha tuttavia mostrato la presenza del mondo infantile nella psiche dell’uomo, intendendola però come l’essenza nevrotica di una tendenza regressiva. La buona adultità dunque si concretizza nella maturazione che si traduce in capacità di amare e lavorare.
L’analisi freudiana va a scavare nell’inconscio del paziente alla ricerca di quegli elementi di permanenza di pensiero infantile che inibiscono il passaggio alla normalità. Per normalità si intende l’adultità.
Nel pensiero di Freud sull’adultità è riscontrabile quasi una demonizzazione della dimensione infantile di cui non ci sono tracce in gran parte dei suoi epigoni, in particolare Melanine Klein e Gustav Jung. Quest’ultimo autore, in particolare, ha fornito un notevole contributo alla definizione dell’età adulta.
Jung[5] individua due archetipi in particolare, quello del puer e quello del senex. Il primo è l’immagine idealtipica dell’immaturità, identificata dall’inquietudine e l’impulso alla scoperta; il secondo è ovviamente il prototipo della maturità, che si associa ai concetti di responsabilità e solidità. L’età adulta è dunque nella concezione di Jung il luogo di incontro/scontro di queste due dimensioni, che prevalgono alternamente, e il cui bilanciamento, equilibrio, è rivelatore di maturità.
L’età adulta si realizza attraverso il cambiamento, il cui processo ricalca la concezione dialettica hegeliana, per cui l’adultità altro non è che sintesi (ovvero superamento) dell’opposizione dei contrari: puer e senex.
Erikson[6] supera la concezione psicanalitica, evidenziando la non riconducibilità dello sviluppo del soggetto adulto a soli elementi di natura libidica e, di contro, l’importanza ai fini della sua definizione dell’interrelazione con eventi inerenti alla sua socializzazione. Dunque, vi sono tre processi fondamentali e complementari che caratterizzano l’esistenza dell’uomo:
· Elemento biologico (soma)
· Elemento psichico (psiche)
· Elemento comunitario (ethos)
Questi elementi sono sempre tutti presenti all’interno di un individuo, e ognuno di essi è preminente rispetto agli altri in alcune fasi dell’esistenza. Il principio che regola questo processo interattivo è l’epigenesi.
Erikson può così individuare 8 diversi stadi del ciclo vitale; l’età adulta, compresa approssimativamente tra i 40 e 60 anni, è caratterizzata da due concetti fondamentali:
1. Quello di generatività. Elemento focale dell’età adulta, può essere declinato in diverse modalità creative, che l’oggetto sia un altro essere vivente, un’idea, una tecnica, una cosa.
2. Quello di cura. Strettamente connesso al concetto di responsabilità, è l’altra attitudine tipica dell’età adulta.
Per Alfred Adler[7] l’Io adulto è caratterizzato da una lotta costante, effetto inevitabile delle interrelazioni sociali, con “complessi di inferiorità”, elementi tipici della psiche infantile nel suo confrontarsi con il genitore. Una vera e propria invidia dell’adulto, dunque, motore propulsore di crescita e cambiamento, che nell’età adulta dovrà risolversi, perché possa parlarsi di un’adultità sana, in un sentimento di comunità in grado di consentire una buona integrazione sociale. Tuttavia Adler non considera mai l’adultità un processo compiuto; piuttosto si tratta di una tensione verso un ideale dell’Io.
Il tema dell’incompiutezza sarà centrale anche nella riflessione del filone di ricerca definito come “psicologia esistenziale”, la cui matrice filosofica è riconducibile al pensiero di autori come Heidegger, Husserl, Sartre. In Husserl[8] in particolare è fondamentale il concetto di approssimazione, che rimanda a quello di incompiutezza e trova coerente legittimazione nei presupposti filosofici dell’approccio fenomenologico (da fainómenon, apparenza) per cui non è il mondo reale ad essere oggetto di interpretazione, bensì le sue manifestazioni appariscenti.
Particolarmente importanti ai fini di questo lavoro sono gli studi di R. Gould[9]: questi definisce la crescita come una trasformazione, e lo sviluppo umano come emancipazione da una serie di false idee che determinano la cosiddetta coscienza infantile e inibiscono la crescita. Il processo di cambiamento dunque si realizza nel distacco dalle sicurezze indotte dalle illusioni infantili, nella direzione di un’accettazione di se stessi e dei propri limiti. In pratica, l’adultità sana prevede lo sviluppo di un adeguato senso della realtà.
In sostanza, da questa breve panoramica sulle principali teorie inerenti l’età adulta, è interessante desumere alcuni concetti fondamentali:
· L’adultità come processo continuo di crescita orientato ad una condizione di maggiore adeguatezza alla realtà
· Il pensiero adulto come processo cognitivo orientato ad una maggiore capacità di adeguatezza alla realtà
3. Definizione di un pensiero adulto: il concetto di doverizzazione della Rational Emotive Behavior Therapy
Nel tentativo di sviluppare una riflessione che potesse approfondire il concetto di verbalizzazioni irrazionali della Rational Emotive Behavior Therapy, ho valutato le cosiddette doverizzazioni come delle inferenze formulate nella modalità di un’implicazione materiale, il contenuto delle cui premesse fosse un esempio di pensiero infantile. Ritengo la formalizzazione in strutture logiche delle doverizzazioni della RebT un’ ottima modalità di lavoro riguardo il riconoscimento del pensiero infantile e il suo superamento.
La Rebt (Rational Emotive Behavior Therapy) è un modalità terapeutica cognitivista/comportamentale ideata e sviluppata nei suoi principi fondamentali dal Dott. Albert Ellis[10]. Elemento distintivo - e particolarmente rilevante ai fini del nostro lavoro - di questo approccio scientifico e culturale è l’importanza delle verbalizzazioni, ovvero di ciò che diciamo a noi stessi, ai fini della nostra condotta di vita e della nostra stessa felicità. Ellis sostiene che qualunque evento negativo abbia caratterizzato, o addirittura traumatizzato la nostra vita, se continua a tormentarci anche quando l’evento si è consumato, è in virtù di una nostra verbalizzazione interiore. Attraverso questa verbalizzazione, noi consentiamo all’evento negativo di continuare a produrre i suoi effetti nefasti sulla nostra personalità. Proviamo a portare un esempio:
Luigi è un bambino di 13 anni, e frequenta la terza media. E’ sempre stato uno dei primi della classe, sin dalle elementari. Tuttavia, quel giorno l’insegnante di matematica ha deciso di fare un compito in classe a sorpresa. Luigi non è preparato e rischia di prendere il suo primo brutto voto, proprio l’anno in cui ci sono gli esami di terza media. La sua compagna di banco Sara, invece, sembra molto spedita nello svolgere le complesse operazioni algebriche. Luigi decide che la cosa migliore da fare, al momento, è cercare di copiare. Ma non essendo pratico, viene facilmente scoperto dalla professoressa. Questa strappa il compito dalle sue mani, obbligandolo in questo modo a consegnare praticamente in bianco. Inoltre, l’insegnante non manca di esprimergli tutta la sua delusione e il suo sdegno, davanti a tutta la classe. Luigi trova la situazione insopportabile, non ha il coraggio di alzare lo sguardo dal banco per non incontrare gli occhi della professoressa e dei suoi compagni. L’evento è per lui talmente significativo, che ne porterà i segni fino in età adulta, sotto forma di una certa insicurezza o disagio quando è a rischio di disapprovazione.
L’emozione che Luigi ha vissuto nel giorno in questione può essere definita di vergogna, imbarazzo, o più semplicemente paura, timore di scontrarsi con la disapprovazione degli altri. Ciò che tuttavia ha permesso a questo malessere di continuare ad essere presente nella vita di Luigi, al punto di condizionarlo anche in età adulta è, secondo i principi della Rebt, ciò che Luigi ha detto a se stesso in quel momento, strutturando il pensiero nella forma di una massima e inserendola nella propria filosofia di vita.
Probabilmente Luigi nel momento della vergogna si è parlato in questo modo:”tutti mi stanno disapprovando; è una sensazione orribile, insopportabile, e non voglio doverla provare mai più!”. Quando ci accade un evento spiacevole, se lo “registriamo” in maniera irrazionale, è come se contraessimo una malattia. Per fortuna è tutt’altro che impossibile guarirne. Luigi ha contratto questo morbo, poiché ogni qualvolta si trova a dover affrontare una disapprovazione, vive la cosa come “orribile e insopportabile”; ma, peggio ancora, è preda di notevoli ansie quando semplicemente rischia la disapprovazione, diventando così inibito e insicuro.
Per riconoscere le nostre verbalizzazioni negative, è particolarmente efficace lo schema A-B-C, introdotto sempre da Ellis. A sta ad indicare l’evento attivante, C il sintomo, l’effetto. B è l’elemento che congiunge A e C, ovvero la verbalizzazione. Lasciamo in pace Luigi e facciamo un altro esempio:
Antonello ha un’avventura con Elisabetta, una bella ragazza che frequenta la sua stessa comitiva. Le cose però non vanno bene, poiché quella sera Antonello, forse perché particolarmente stanco o emozionato, non riesce ad avere un’erezione. Antonello è turbato, ma sa che si tratta di un episodio isolato, per cui non fa drammi e decide di uscire ancora con Elisabetta. Ma Elisabetta si confida con le amiche, che maliziosamente fanno arrivare la voce ai ragazzi. Antonello diventa così oggetto di doppi sensi e allusioni; lui si mostra sicuro e sta allo scherzo, ma in realtà è disperato, al punto di arrivare a pensare al suicidio.
Questo piccolo racconto ci offre lo spunto per evidenziare, attraverso lo schema A-B-C, un esempio di verbalizzazione irrazionale e uno di verbalizzazione razionale. Nel primo caso:
A: evento attivante = prese in giro degli amici sulla sua scarsa virilità
C: sintomo = disperazione, desiderio di farla finita
Bi: verbalizzazione irrazionale = “i miei amici mi considerano un impotente; questa è una cosa assolutamente insopportabile, non è possibile vivere in questo modo!”
Bi rappresenta dunque la verbalizzazione irrazionale. L’importanza che Antonello dà all’opinione dei propri amici, almeno riguardo il tema mascolinità, è tale da far si che l’evento A possa provocare C. Per molte altre persone, A non avrebbe potuto mai condurre a C. Ma andiamo avanti, perché come ho detto il racconto precedente offre ad Antonello l’opportunità di mostrare anche una forma di pensiero più razionale:
A: evento attivante = Defaiance con Elisabetta
C: sintomo = dispiacere, leggero turbamento
Br: verbalizzazione razionale = il fatto che abbia avuto un problema con Elisabetta, non fa di me un impotente. Uscendo ancora con lei, sarà evidente che si è trattato di un episodio isolato.
In questo secondo caso, Antonello si mostra molto razionale ed equilibrato; infatti il sintomo è quello appropriato, ovvero un normale dispiacere. La ragione per cui in un caso Antonello riesce ad essere così razionale, e in un altro invece esattamente l’opposto, è probabilmente da cercare nell’importanza che egli conferisce all’opinione degli amici, e quindi in un’ulteriore verbalizzazione.
Mario Di Pietro nell’edizione italiana del testo di Ellis L’Autoterapia Razionale Emotiva[11], evidenzia come le più frequenti idee irrazionali possano essere sottese al concetto di Doverizzazione. Di Pietro sintetizza così:
· Doverizzazioni su se stessi («Io devo agire bene ed essere approvato da tutte le persone per me significative, altrimenti sono un assoluto incapace ed è terribile»).
· Doverizzazioni sugli altri («Gli altri devono trattarmi bene e agire come io penso che debbano assolutamente agire, altrimenti sono delle carogne, dei mascalzoni e meritano di pagarla»).
· Doverizzazioni sulle condizioni di vita («Le cose che mi succedono devono essere proprio come io pretendo che siano e tutto deve essere facile e gradevole, altrimenti la vita è insopportabile»).
Ma cosa sono le doverizzazioni? Perché sono così presenti e influenti nel nostro modo di ragionare tanto da essere fonte per noi di ansie, depressioni ecc?
La doverizzazione altro non è che la trasposizione di un principio di necessità. “Io devo agire bene” è in realtà “E’ necessario che io agisca bene”; “Le cose devono andare in un certo modo” va letto come “è necessario che le cose vadano in un certo modo”. Non è una specificazione da poco. Le idee irrazionali trovano linfa e si stratificano nel nostro sistema di convinzioni proprio perché prendono la forma di assiomi. Tutte le nostre convinzioni si fondano su assiomi, da cui derivano corollari di varia natura. Quello che ci interessa stabilire è che le idee irrazionali si manifestano e traggono la loro forza persuasiva dall’essere assimilate come leggi, in particolare leggi di necessità.
In logica si parla di implicazione materiale. Ovvero, la forma: se…allora…( Se piove, allora la terra si bagnerà) [inserire nota più precisa sugli effettivi valori di verità dell’implicazione materiale)
Anche le nostre doverizzazioni irrazionali hanno questa struttura. Se x allora y. Pur se non esplicitamente presenti nella verbalizzazione, le doverizzazioni hanno un loro fondamento, la giustificazione razionale per cui da essa, per implicazione materiale, si perviene a y, ovvero la doverizzazione.
Le doverizzazioni possono dunque essere spiegate come delle implicazioni materiali infondate, o meglio fondate su un elemento di volontà. La doverizzazione “Le cose devono andare come io pretendo che siano” è dunque:”siccome pretendo che le cose vadano in un certo modo, allora devono andare proprio in quel modo”. Ancora più precisamente, nell’assumere forma assiomatica:”se io voglio che le cose vadano in un certo modo, allora devono andare in quel modo”.
Proponiamo in forma logica l’espressione:
«Le cose che mi succedono devono essere proprio come io pretendo che siano e tutto deve essere facile e gradevole, altrimenti la vita è insopportabile».
Riformulata in:
«Se voglio/desidero che le cose vadano in un certo modo, allora devono andare in quel modo, altrimenti la vita è insopportabile»
L’ultima espressione (“la vita è insopportabile”) rappresenta un altro errore nel trasformare un proprio vissuto in un assioma. Ma andiamo a simbolizzare:
CNCpqr
Nella simbologia di Ukasievick.
Ovvero:”Se non si da il caso che p implichi q, allora r”
Dove: p=voglio che le cose vadano in un certo modo; q=le cose vanno in un certo modo; r=la vita è insopportabile
Lo formula è corretta da un punto di vista logico. Dando per buono che r sia davvero una conseguenza necessaria del fatto che p non implichi q, allora il risultato sarà sempre e inevitabilmente r, poiché p non implica mai q.
La pretesa di far derivare qualcosa che riguardi il mondo esterno (ma anche noi stessi!) dalla nostra semplice volontà, dal nostro desiderio, è un modo di pensare puerile in senso stretto, poiché riproduce l’attitudine dei bambini a considerare il mondo esterno come un prolungamento della propria volontà. Le frustrazioni a cui vanno incontro negli anni servono a formare il principio di realtà.
Dunque, riassumendo, questa tipologia di verbalizzazione irrazionale (doverizzazione) è un ragionamento della forma dell’implicazione materiale, per cui un desiderio dovrebbe comportare una condizione oggettiva, pena uno stato di malessere.
Attraverso questi schema interpretativo, ovvero il riconoscimento delle doverizzazioni/leggi di necessità, è dunque possibile riconoscere le forme di pensiero infantile. E’ mia convinzione inoltre, e sono persuaso di poterlo argomentare in questo lavoro, che lo schema A-B-C della RebT sia un efficace strumento utile al progressivo e continuo superamento del pensiero infantile in favore di un pensiero adulto e, dunque, una più adeguata adultità.
Una riflessione sulla natura delle idee/verbalizzazioni irrazionali può essere infatti utile ai fini di una maggiore consapevolezza di esse, che poi è il primo passo per la loro risoluzione. Questo avviene attraverso una riformulazione dell’idea in una forma razionale e una serie di tecniche di comportamento il cui approfondimento tuttavia esula dai fini di questo lavoro.
Ovviamente i desideri non possono mai essere legati alla loro realizzazione mediante un rapporto di causa-effetto, un legame “necessario”. Anche considerare il malessere come conseguenza inevitabile, “necessaria” della mancata realizzazione del proprio desiderio, è un atto arbitrario, che nulla ha a che fare con la logica. Convincendosi di questo, si può cominciare a lavorare per sostituire la verbalizzazione irrazionale infantile.
“Se non riuscirò a superare brillantemente l’esame, avrò dimostrato di essere un buono a nulla, e per me ciò sarà insopportabile”
Significa in realtà:
“Siccome non voglio passare per un buono a nulla, devo superare brillantemente l’esame. Se non vi riuscirò, non potrò sopportarlo”
Formulata correttamente è:
“Siccome non voglio passare per un buono a nulla, desidero superare brillantemente l’esame. Se non vi riuscirò, sarà molto dura”
Sono intervenuto sulla verbalizzazione in due modi diversi; nel primo caso, ho sostituito la doverizzazione con un atto di volontà, e non più di necessità oggettiva. Nel secondo caso, la forma di “implicazione materiale” è intatta, ma è il suo contenuto ad essere modificato. Non è vero infatti che sarà insopportabile, ma solo molto duro da sopportare.
E’ possibile desumere da quanto esposto una serie di insight:
1) L’adultità rappresenta una tensione verso una condizione di maggiore adeguatezza alla realtà
2) La capacità di elaborare un pensiero adulto è condizione ineludibile di una buona adultità
3) Il pensiero infantile si esprime nella forma di leggi di necessità, ovvero rapporti di causa-effetto tra la propria volontà e la realtà oggettiva, la cui mancata realizzazione provoca frustrazione. Il pensiero adulto si sviluppa attraverso un progressivo distacco da questa modalità di giudizio.
Lo schema A-B-C della RebT, attraverso la messa in discussione e risoluzione delle doverizzazioni/leggi di necessità, è un efficace strumento per lo sviluppo di un pensiero adulto.
4. Rinforzi della società al pensiero infantile: pensiero adulto e pensiero critico
Il pensiero infantile non è un problema esclusivamente individuale, bensì di natura fortemente sociale. La cultura di massa e la comunicazione mediatica evidenziano spesso una spiccata attitudine (colposa o dolosa) al pensiero puerile, rinforzando così le strutture di pensiero imperniate su false leggi di necessità.
L’esempio più illuminante è quello della tautologia “volere è potere”. E’ uno slogan di straordinario impatto e una vera e propria verbalizzazione infantile sociale. E’ un teorema, foriero di innumerevoli doverizzazioni. Poniamo un esempio:
Antonio ha completato i suoi studi di giurisprudenza in maniera brillante, e desidera ardentemente diventare un magistrato. Prepara dunque con meticolosità le materie d’esame del concorso, impegnandosi con tenacia e dedizione. Purtroppo però, nonostante l’impegno profuso, non riesce a superare le prove scritte del concorso. L’esito negativo dell’esame conduce Antonio ad un profondo stato di avvilimento, tale da influire negativamente sui suoi studi e pregiudicando altre possibilità di cui avrebbe potuto giovarsi.
Il Prof. Albert Ellis avrebbe immediatamente contestato l’espressione “l’esito negativo dell’esame conduce Antonio ad un profondo stato di avvilimento […]”, individuando nelle sue verbalizzazioni inerenti l’insuccesso, e non nell’insuccesso stesso, la causa reale del suo malessere. Ma procediamo con ordine attraverso la consueta modalità espositiva:
A: evento attivante = esito negativo delle prove scritte del concorso
C: sintomo = avvilimento, diminuzione di autostima
Bi: verbalizzazione irrazionale/infantile – “volere è potere”, io non sono riuscito a superare l’esame. Questo vuol dire che il problema sono io, sono un fallito e questo significa che non merito nulla.
La verbalizzazione infantile di Antonio trova uno straordinario rinforzo nella massima sociale che identifica volontà e conseguimento dell’oggetto della volontà.
La tautologia “volere è potere” è pensiero infantile allo stato puro, la teorizzazione di un’incongruenza logica. In questo caso il disputing prende la forma del cosiddetto pensiero critico, e la discussione delle verbalizzazioni irrazionali diventa analisi di una proposta culturale sociale.
Non è necessario in questa sede dilungarsi in una disamina della tautologia volere è potere; quanto scritto fino ad ora è sufficiente ad evidenziarne la puerilità. Nel caso specifico di Antonio, la verbalizzazione razionale a compimento di un efficace disputing sarà:
Br: verbalizzazione razionale/adulta = volere e potere sono due cose diverse, non solo non si identificano ma possono addirittura essere inconciliabili. Nonostante l’impegno profuso non ho superato l’esame; le ragioni possono essere molteplici, ma nessuna giustifica un mio calo di autostima.
In sostanza, il cosiddetto pensiero critico, declinato nella messa in discussione di principi culturali socialmente radicati, è una modalità di crescita e sviluppo del pensiero adulto.
Svelare e aggredire intellettualmente le costruzioni culturali infantili della società è un modo per sviluppare la propria adultità.
La cosa non riguarda soltanto gli adolescenti o i giovani, ma tutti gli individui di qualunque età, poiché come abbiamo evidenziato più volte, quello di adultità è uno stato mai del tutto realizzato. Alla luce di questa tesi, risalta maggiormente l’importanza e la portata culturale del concetto di educazione permanente.
Conclusioni
Educare e ri-educare sono due concetti molto diversi, e tuttavia accomunati dal medesimo obiettivo di favorire la crescita del soggetto attivo/passivo del rapporto educativo. Qualunque concezione pedagogica non può prescindere dalle seguenti considerazioni:
1) Ogni essere umano è un individuo in costante divenire
2) Il cambiamento di un individuo è positivo se orientato in direzione di una sua maggiore responsabilizzazione e acquisizione di consapevolezza; in sostanza, se riconducibile al concetto di crescita
3) La crescita è un processo costante, che accompagna la vita dell’individuo per tutta la sua durata
Dunque, lo stadio di adultità non è una fase della vita, ma soltanto un momento e un aspetto della crescita, un orizzonte verso il quale va orientato l’intervento di accompagnamento (che sia educativo o ri-socializzante) del discente.
Condizione essenziale per una buona adultità è la capacità di pensare in maniera adulta, ovvero in modo razionale. Ovviamente, così come l’adultità in generale, anche il pensiero adulto non rappresenta uno stadio definitivo dell’attività cognitiva, ma si sviluppa attraverso una costante contrapposizione dialettica alle forme di pensiero infantile.
Il metodo di discussione delle doverizzazioni irrazionali della RebT, è un ottimo strumento di lavoro per favorire lo sviluppo di un pensiero razionale.
In sostanza, la crescita di un individuo, dal punto di vista cognitivo, si realizza attraverso un processo dialettico di critica al pensiero puerile, sostituendo le doverizzazioni irrazionali con più appropriate asserzioni aderenti al principio di realtà.
[1] Scognamiglio D., La Filosofia in Carcere, in Universale/Singolare: La Politica del Benessere, Aperia ed., 2006
[2] V. anche Frixione M., Come Ragioniamo, Laterza, 2007
[3] V. anche Demetrio D., L’età adulta – teorie dell’identità e pedagogie dello sviluppo, Carocci ed., 2001
[4] Freud S., Al di là del principio del piacere, Boringhieri, Torino, 1977
[5] Jung C.G., Le diverse età dell’uomo, in Id., Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Einaudi, Torino, 1959
[6] Erikson E.H., I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Armando ed., Roma, 1984
[7] Adler A., La conoscenza dell’uomo, Mondatori, Milano, 1964
[8] Husserl E., Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologia, Einaudi, Torino, 1965
[9] Gould R.L., Transformations, Simon and Schuster, New York, 1978
[10] Ellis A., Ragione ed Emozione in Psicoterapia, a cura di C. De Silvestri, Astrolabio Ubaldini, 1989
[11] Ellis A., L’autoterapia razionale emotiva, a cura di M. Di Pietro, Centro Studi Erickson, 1993
Tratto da D. Scognamiglio, Scienze del pensiero e del comportamento - rivista di psicologia, pedagogia ed epistemologia delle scienze umane, aprile 2008
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